L’ovodonazione: il ritratto di chi la pratica in Europa e le prospettive in Italia
Per prendere migliore coscienza di quali siano le caratteristiche della donna che dona gli ovuli in Europa, ci rifacciamo al profilo medio che emerge dai dati raccolti tra il 2011 e il 2012 in sessantatré, centri di procreazione assistita sparsi sul territorio di undici paesi europei (Portogallo, Spagna, Francia, Belgio, Regno Unito, Finlandia, Repubblica Ceca, Grecia, Polonia, Ucraina e Russia): “Ha meno di 30 anni, un’istruzione di alto livello, convive con il partner e ha già un bambino”.
È questo l’identikit medio della donna europea che decide di donare gli ovuli ai centri di fecondazione assistita.
Il motivo principale per cui lo fa? “Aiutare le altre donne che non possono avere figli”.
Le medie, però, rappresentano solo una parte della realtà mentre le caratteristiche e le motivazioni variano moltissimo da paese a paese, influenzate dalla cultura e da ciò che impongono e/o permettono le leggi.
In Spagna, per esempio, chi sceglie di donare ha intorno ai 25 anni e nel 60% dei casi è single; il 24%, studia ancora, mentre solo il 28% ha un lavoro a tempo pieno. In Belgio la proporzione appare invece rovesciata: qui oltre il 75% delle donatrici ha un impiego a tempo pieno e le studentesse sono appena l’1,5%.
L’analisi dei dati che ha coinvolto oltre 1.100 donne europee, condotta dal Bioethics Institute Ghent (BIG) e pubblicata su Human Reproduction, mostra:
più della metà che lo ha fatto unicamente per altruismo (tra i casi spontanei e le pazienti in cura per la fecondazione assistita che hanno deciso di donare, sempre per altruismo, gli ovuli prodotti in più (egg-sharing);
un terzo che sostiene di averlo fatto sia per altruismo sia per soldi;
poco più del 10% che dice di essere stata mossa unicamente da un ritorno economico (sebbene si tratti comunque di cifre di solito inferiori ai mille euro, per una procedura invasiva e che, se si ha un’occupazione, richiede permessi di lavoro).
Dati ancora più curiosi emergono se si scende nel dettaglio interno a ciascun paese. Le più altruiste in assoluto sembrano essere le francesi, seguite dalle finlandesi e dalle belghe. In Francia e in Belgio, inoltre, si registrano le più alte percentuali di donazioni verso persone vicine (parenti o amiche) mentre le ragioni economiche sono invece più forti in Russia e in Grecia. L’egg-sharing, infine, è molto frequente solo nel Regno Unito e in Polonia.
La situazione in Italia, in seguito al deposito delle motivazioni della sentenza del 9 aprile 2014 avvenute di recente, è possibile ricominciare a praticare la fecondazione eterologa. Sono tante le situazioni che possono però evolvere in questa necessità. Il desiderio di avere figli è, infatti, molto spesso ostacolato da una serie di problematiche che vanno dalla presenza di difetti genetici incompatibili con la procreazione, all’infertilità severa, sino a comprendere la sterilità completa.
La Legge 40 aveva spezzato questo “cordone di generosità” per dieci lunghissimi anni portando molte coppie a recarsi all’estero, ma ora possiamo tornare a dare loro speranza attraverso un gesto d’amore gratuito che potrà permettere l’arrivo di nuovi bambini.
Le principali ONLUS come Cerco un Bimbo, L’Altra Cicogna, Amica Cicogna, Luca Coscioni per la libertà di ricerca scientifica, hanno lanciato nella conferenza stampa indetta in Senato l’11 Giugno, un appello affinché:
il Governo rimuova gli ostacoli per l’accesso alla fecondazione assistita ancora presenti, promuovendo quindi una campagna di sensibilizzazione sociale che inviti alla donazione di gameti;
le donne italiane che hanno già avuto gravidanze e scelgono di conservare i propri gameti, li donino per tecniche eterologhe;
le coppie che si sono recate all’estero per accedere a servizi di fecondazione eterologa e conservino i propri gameti nei paesi in cui si sono recati, li donino per l’eterologa in Italia;
si diffonda al cultura a livello complessivo di quanto sia utile, in età fertile di donare i propri gameti per consentire a chi non può, di avere un figlio.
In realtà, è ancora troppo presto per dire cosa succederà esattamente.
Come dice Marilisa D’Amico, Docente di Diritto Costituzionale all’Università Statale di Milano e uno degli avvocati che si è battuto per l’abolizione del divieto assoluto di eterologa: “Le regole per la donazione di gameti sono già presenti nella legge 40. Per esempio, è già vietata la loro commercializzazione e l’articolo 9 stabilisce che il donatore di gameti non acquisisce alcuna relazione giuridica parentale con il nato e non può far valere nei suoi confronti alcun diritto, né essere titolare di obblighi. Inoltre, mutuando quanto già stabilito per l’adozione, è garantito l’anonimato del donatore”.
Un aspetto su cui possiamo fare affermazioni con una certa tranquillità è che qui in Italia la donazione non può prevedere alcuna forma di rimborso economico o compenso. Per il resto è difficile immaginare quale potrebbe essere oggi il profilo della donatrice italiana, le testimonianze in merito risalgono a dieci anni fa come racconta Alessandra Vucetich dell’European Fertility Center di Milano.
Allora erano principalmente le cugine, le sorelle e, in alcuni casi, le amiche delle pazienti stesse a offrire i propri ovociti.
In alcuni casi sporadici poteva accadere che fosse chiesto alle donne in corso di trattamento per la PMA di regalare due o tre dei loro gameti risultati in sovrannumero durante le normali procedure di ricerca della gravidanza.
Le donazioni spontanee erano invece molto rare.
La solidarietà era quindi circoscritta alla famiglia.
In Spagna, al contrario, le giovani donne già allora si proponevano con l’idea che un giorno sarebbe potuto servire anche a loro.
È quindi verosimile sperare che in Italia si possano realizzare le condizioni per cui la gente si abitui a un’informazione sull’argomento donazione di gameti che raggiunga la stessa intensità a cui è abituata ora per le campagne di donazione del sangue o del midollo osseo.
L’instaurarsi di un senso di unità sociale tanto forte potrà portare tante persone a trasformarsi in donatori e donatrici:
animati da spirito altruistico verso una coppia che senza il suo aiuto non riuscirebbe a procreare;
coscienti del fatto che non è in procinto di concepire un figlio per se stessa ma di donare la possibilità di un figlio a una madre;
convinti che tra quel bambino che nasce da un’ovodonazione e la madre che lo porta in utero per nove mesi si stabilisca uno scambio profondo fin dal primo giorno, che fa superare la questione della provenienza genetica.
Un recente studio condotto negli istituti scolastici presenti sul territorio della provincia di Trapani, ha fatto emergere un’incidenza del varicocele pari al 10%, in linea con le statistiche nazionali. L’indagine ha coinvolto 1650 alunni delle classi terze medie tra i quali sono state riscontrate anche altre patologie dell’apparato genitale (incidenza pari al 13%) la cui presenza, nella maggior parte dei casi, era sconosciuta ai genitori.
Quest’ultimo aspetto pone l’accento e rafforza l’importanza dello screening, ribadendo come iniziative come quella citata siano utili in termini di prevenzione e non possano, proprio per questa ragione, che riscontrare apprezzamenti sia da parte delle famiglie sia dei dirigenti scolastici. Nell’età adolescenziale le patologie andrologiche hanno un’incidenza del 30-40% e possono essere suddivise tra quelle diagnosticabili facilmente e altre più asintomatiche che, se non sono riconosciute e trattate per tempo, potranno causare problemi d’infertilità (è il caso del varicocele, infezioni urogenitali).
È importante, quindi, offrire ai nostri giovani l’opportunità di riconoscere questi problemi ed eventualmente di risolverli, prima che possano comportare dei danni per la loro vita sessuale e riproduttiva futura. Oggi che è venuto meno il sistema di controllo rappresentato dalla visita medica di idoneità collegata al servizio di leva obbligatorio, una cultura che preveda lo screening tra gli adolescenti si rivela un’opzione determinante per impedire che simili patologie possano sfuggire all’osservazione precoce.
Come afferma il referente per lo screening, Antonino De Filippi, medico dell’Unità operativa di Chirurgia pediatrica presso l’Ospedale Sant’Antonio Abate, diretta da Giuseppe Piazza: “Prima s’interviene, in sostanza, migliori saranno i risultati per il mantenimento o il recupero della fertilità” e ciò chiaramente vale per tutte le patologie citate, dal varicocele sino a quelle neoplastiche.
Nel caso ci si trovi davanti ad una diagnosi di varicocele, sono prospettabili cure farmacologiche con farmaci sclerosanti (in grado di indurire le pareti venose) che presentano però numerose controindicazioni, agendo a livello vascolare. Tra i principi attivi più impiegate abbiamo il Sodio tetradecilsolfato al 3%, l’etanolamina oleato e il Laureth-9 (polidocanolo). La posologia dei farmaci dipende dalla gravità del varicocele e dalle condizioni del paziente. In generale, si preferisce optare per il ricorso alla chirurgia. Questo tipo di decisione è comunque a discrezione dell’andrologo che decide quando è necessario intervenire. Normalmente l’operazione si profila quando:
il disturbo è sintomatico (associato a dolore o fastidio);
il testicolo colpito è più piccolo dell’altro (per favorire un recupero della crescita);
il grado di peggioramento della malattia è elevato (3° o 4° grado);
al termine dello sviluppo puberale, si accerta un’alterazione severa della fertilità.
L’operazione che ne prevede l’asportazione si esegue oggi con metodiche chirurgiche, microchirurgiche, laparoscopiche e radiologiche. Tra queste ultime, esistono mezzi estremamente poco invasivi per il paziente accompagnati da una rapida ripresa funzionale e da una bassa incidenza di complicanze.
Un’ulteriore e importante testimonianza di come si possa agire nella direzione di una vera e propria prevenzione sul territorio, viene dal Piemonte. In alcune zone è stato attivato dal 2010/11 un progetto chiamato PASS (Progetto Andrologico di Screening per Studenti), iniziativa per la prevenzione delle patologie della sfera sessuale maschile rivolta agli studenti degli ultimi due anni delle scuole superiori.
Nato nelle strutture sanitarie della provincia di Alessandria, nell’anno scolastico 2012-2013 è riuscito a raggiungere il numero più ampio di individui, ricevendo un generoso contributo da parte dei Rotary Club locali e il patrocinio scientifico dell’Associazione Urologi Italiani (Auro.it), importante Società scientifica nazionale in ambito urologico.
Dal punto di vista pratico, l’attività si è articolata in una fase informativo-divulgativa, rivolta agli studenti di entrambi i sessi, e in una più prettamente clinica, basata su visite andrologiche gratuite a tutti gli studenti maschi che ne avessero fatto richiesta. L’attività di formazione ha riguardato 1.566 studenti (di cui 723 maschi). Di questi, 160 ragazzi sono stati visitati, 57 presentavano patologie andrologiche e 38 il varicocele.
Il passo successivo per questi ultimi è stata la valutazione del liquido seminale. Nella maggior parte dei casi, gli esami effettuati non hanno evidenziato alterazioni, testimoniando una normale fertilità. Questi soggetti non necessitano quindi di trattamento, ma solo di controlli periodici nel tempo. Questo risultato è già, di per sé, una dimostrazione dell’utilità dello screening per intercettare tutte quelle situazioni che potrebbero poi evolvere in casi di potenziale compromissione della fertilità prima che il danno si verifichi.
La prevenzione andrologica effettuata nella fascia d’età 18-20 anni, con il successivo avvio di controlli cadenzati nel tempo, dovrebbe andare a costituire nel prossimo futuro la prassi di elezione per scoprire patologie in un momento in cui sono correggibili in modo facile e con grandi prospettive di successo, cosa che non può realizzarsi sempre in età più avanzata.
Parla della Fivet il Prof. Rubens Fadini, che dirige il “Centro di Medicina della Riproduzione Biogenesi” presso “Istituti Clinici Zucchi” di Monza e “Istituti Ospedalieri Bergamaschi”.
Al seminario annuale promosso dall’azienda farmaceutica Ferring “Esperienze di Procreazione Medico Assistita in Lombardia” è intervenuto il Prof.Fadini sulla fecondazione in vitro, affrontando le tematiche connesse al trasferimento degli embrioni, alla possibilità del loro congelamento, alle tecniche di scongelamento.
Di seguito riportiamo l’intervista al Prof. Fadini sulla Fecondazione in Vitro.
1. In cosa consiste la tecnica della fecondazione in vitro?
In senso stretto, l’espressione “fecondazione in vitro” si riferisce all’ottenimento in laboratorio dell’unione (fecondazione) della cellula femminile (ovocita) con quella maschile (spermatozoo) con la formazione di un embrione.
Più estesamente, è un approccio terapeutico specifico all’infertilità di coppia. Essa rappresenta, infatti, la procedura di “procreazione medicalmente assistita” (PMA) di secondo livello, cioè un metodo ad alta tecnologia per la terapia dell’infertilità.
Dopo aver proceduto alla diagnosi dell’infertilità, mediante un semplice iter diagnostico, e aver osservato precise indicazioni e regole la fecondazione in vitro (FIVET e ICSI) è proposta alla coppia per favorire la soluzione dell’infertilità.
In preparazione alla procedura, la donna è sottoposta a stimolazione ovarica, a monitoraggio ecografico e ormonale per circa 12-14 giorni. E’ sottoposta, quindi, a prelievo degli ovociti che sono inseminati in laboratorio (in vitro) con gli spermatozoi del partner, allo scopo di generare embrioni che, dopo due o cinque giorni di sviluppo in vitro, sono trasferiti nell’utero della donna.
2. Ruolo della stimolazione ovarica, rischi possibili e utilità di una personalizzazione della stimolazione
La capacità di un singolo oocita umano di generare una gravidanza è fisiologicamente limitata, anche nelle donne fertili. Per tale ragione, la PMA si fonda sulla necessità di eseguire una “stimolazione ovarica”.
Utilizzando l’ormone FSH (ormone che stimola la crescita dei follicoli) è possibile indurre la crescita di numerosi follicoli (multi-follicolare) che sono precisamente “temporizzati” nel loro sviluppo (monitoraggio ecografico e ormonale della crescita follicolare multipla) e quindi prelevati (prelievo degli ovociti dai follicoli ovarici). Il maggior numero di ovociti compensa la ridotta capacità di sviluppo e fecondazione in vitro del singolo ovocita.
In alcuni casi, può accadere che la stimolazione ovarica induca una risposta elevata, consistente nella crescita di un eccessivo numero di follicoli ovarici e, per effetto di ciò, si può manifestare la cosiddetta “sindrome da iperstimolazione ovarica”. Condizione questa che può e deve essere evitata con un’appropriata scelta terapeutica, considerando i peculiari fattori di rischio di ogni singola donna.
Quest’approccio terapeutico tiene conto di alcuni importanti elementi, quali l’età, la riserva ovarica (valutata sulla base del dosaggio ematico degli ormoni FSH e Antimulleriano), il peso e la personale storia clinica. La preliminare e attenta valutazione di tutti questi fattori consente di “personalizzare” la terapia identificando la dose appropriata dei farmaci da somministrare per ottenere una sufficiente crescita multi-follicolare impedendo l’eccessiva risposta ovarica con le sue conseguenze.
Purtroppo, al contrario, c’è una categoria di pazienti che ha una scarsa o nulla probabilità di sviluppare una “sindrome da iperstimolazione ovarica”, queste sono le pazienti che hanno un’insufficiente riserva ovarica ed hanno anche scarsa possibilità di rispondere alla stimolazione ormonale producendo sempre un inadeguato numero di follicoli. È, comunque, importante individuare anche questa tipologia di pazienti per identificare la giusta quantità/qualità dei farmaci.
3. Può capitare che la donna, a seguito di stimolazioni ovariche, produca molti ovociti. Quanti ovociti si possono prelevare e fecondare in vitro?
Per le ragioni sopra discusse è auspicabile ottenere un certo numero di ovociti tra cui poter scegliere i più idonei da sottoporre a fecondazione in vitro. Si pensa che il numero ideale vari da otto a quindici. In quanto, alcuni di questi ovociti, potranno non essere idonei, altri non si feconderanno e alcuni, dopo la fecondazione, non produrranno embrioni evolutivi. Attualmente, dopo le modifiche alla Legge 40 apportate dalla Corte Costituzionale nel 2009, Il numero di ovociti da sottoporre a inseminazione non è più regolato dalla legge, ricordo che prima di questa sentenza potevano essere fecondati non più di 3 ovociti. Il numero di ovociti da utilizzare è a discrezione del medico e varia in relazione all’età femminile e la precedente storia clinica della coppia.
4. Laddove se ne fecondino più di uno, quanti embrioni vengono trasferiti?
Potendo utilizzare un maggior numero di ovociti risulta altamente probabile che si ottengano diversi embrioni e quindi si ponga la scelta sul numero di embrioni da trasferire. Alcune legislazioni del nord Europa impongono di trasferire non più di un embrione per volta (cosiddetto “trasferimento di un singolo embrione”). In altri paesi europei, come il nostro, questo principio non è regolamentato per legge ma la scelta è lasciata al medico, previo accordo con la coppia, dopo aver discusso rischi e benefici.
In Europa, comunque, vi è un generale accordo che gli embrioni da trasferire dovrebbero essere al massimo due. Si può, comunque, decidere di trasferire fino a tre/quattro embrioni in casi assolutamente particolari, in relazione alla qualità degli embrioni stessi, dell’età della donna e della storia clinica della coppia. Questa prudente modalità di approccio, come detta la sentenza della Corte Costituzionale del 2009, è ispirata dalla necessità di evitare l’insorgenza di gravidanze plurime (tre o più gemelli) che rappresentano un grave rischio per la salute della donna e dei nascituri.
5. La legge italiana pone dei limiti sul trasferimento degli embrioni in utero?
No, nessuna restrizione. La nostra legislazione, dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 2009, che ha modificato sostanzialmente l’approccio clinico e biologico alla PMA in Italia, stabilisce che sia il medico, informata la coppia, a prendere la decisione per il “benessere” della donna (ovvero nel rispetto dell’etica medica ottenere la maggiore efficacia della procedura ottenuta col minor rischio per la donna).
6. Quanti embrioni è possibile trasferire in utero? E quale è secondo lei il numero sopportabile e di successo…
Il risultato “ideale” di un trattamento di PMA è la nascita di un bambino sano a termine di gravidanza. Le gravidanze gemellari dovrebbero essere contenute in una misura del 10-20% rispetto a tutte le gravidanze, mentre si dovrebbe fare del proprio meglio per evitare le gravidanze trigemine, che in ogni caso non dovrebbero superare 1% del totale. Ogni centro di PMA dovrebbe essere in grado di sviluppare un metodo, basato sulla propria esperienza, in modo da indentificare il numero adeguato di embrioni da trasferire in ciascuna paziente, al fine di rendere massime le possibilità di ottenere la gravidanza, riducendo allo stesso tempo il rischio di gravidanze plurime.
7. Cosa avviene degli altri embrioni fecondati? Gli embrioni non utilizzati, si possono tutti congelare o devono avere caratteristiche specifiche, e poi come vengono conservati e per quanto tempo è possibile conservarli?
Gli embrioni in sovrannumero non utilizzati per il trasferimento in utero nello stesso ciclo in cui sono stati prodotti (cosiddetto “ciclo fresco”) possono essere conservati, a patto che abbiano adeguate caratteristiche morfologiche e di sviluppo. Bisogna, infatti, considerare che una parte consistente di embrioni prodotti in laboratorio, analogamente a quanto avviene naturalmente, non è idonea né al trasferimento in utero né alla conservazione.
Con le attuali efficienti tecniche di conservazione di cellule e tessuti, gli embrioni idonei sono facilmente conservati in azoto liquido a -196°C (cosiddetta crioconservazione) e possono essere mantenuti in appositi contenitori senza danno per diversi decenni.
Il congelamento degli embrioni è una procedura molto efficace e utile poiché riduce i rischi di plurigemellarità poiché consente di limitare il numero di embrioni da trasferire sul ciclo fresco crioconservando il sovrannumero. Quest’approccio, evitando i rischi, aumenta le probabilità di successo della PMA perché permette di sommare un maggior numero di tentativi (ovvero: possibilità di eseguire più tentativi con una sola procedura di stimolo e prelievo di ovociti). Attualmente, l’efficacia, in termini di gravidanze, utilizzando gli embrioni “congelati” è simile a quello ottenuta con embrioni “freschi”.
8. Quali sono i criteri di valutazione della qualità di un embrione?
La morfologia e la dinamica dell’embrione (ossia la sua forma con la presenza di frammenti e il numero di cellule presenti nell’embrione relativamente all’età dell’embrione stesso) sono attualmente i criteri più attendibili mediante i quali possiamo prevedere la capacità di un embrione di svilupparsi regolarmente, di impiantarsi nell’utero e di dar luogo a una gravidanza in evoluzione. Gli embrioni sono mantenuti in appositi incubatori e sono regolarmente controllati da esperti embriologi che monitorizzano la morfologia e la dinamica di crescita dell’embrione fino al momento del suo trasferimento (dopo due-cinque giorni in vitro).
Oltre alla competenza di esperti embriologi alcuni centri in Europa, tra cui il nostro, dispongono di un particolare strumento detto “Embryoscope” che consente l’osservazione dell’embrione durante tutta la giornata e la “continua” registrazione della dinamica del suo sviluppo. Questo, da un punto di vista pratico, permette di valutare con maggiore cura lo sviluppo in vitro dell’embrione. L’embryoscope potenzia, quindi, significativamente la nostra capacità di determinare con accuratezza la regolarità della crescita degli embrioni cercando di prevederne il possibile destino.
9. Se una coppia decide di utilizzare un embrione congelato, come avviene lo scongelamento dell’embrione?
L’embrione crioconservato è scongelato con tecnologie specifiche e ben codificate che dipendono dalla tecnica utilizzata per il congelamento. In pratica si controlla, con opportuna strumentazione, la velocità con cui l’embrione passa dalla temperatura dell’azoto liquido (-196°C) a quella ambiente rimuovendo le sostanze (crioprotettori) utilizzate per proteggere l’embrione durante il congelamento e dai possibili danni causati dalle basse temperature. Non tutti gli embrioni recuperano, dopo lo scongelamento, la capacità di continuare lo sviluppo ma la probabilità di sopravvivenza con le moderne tecniche è molto elevata, circa 80-90%.
10. Come viene preparato l’endometrio al transfer dell’embrione?
È possibile trasferire embrioni scongelati nel corso di un ciclo ovarico naturale, monitorando e temporizzando il momento dell’ovulazione, il transfer è eseguito alcun giorni dopo l’ovulazione. In questo modo si sincronizza lo stadio di sviluppo dell’embrione con la capacità recettiva dell’endometrio (il rivestimento mucoso della cavità uterina in cui avviene l’impianto). Questa modalità di preparazione potrebbe risultare organizzativamente impegnativa e rischia di annullare molti trasferimenti perché non tutti i cicli naturali sono idonei.
Pertanto, in alternativa al trasferimento in un ciclo naturale, è possibile guidare la preparazione (la crescita) dell’endometrio mediante la somministrazione sequenziale di estrogeno e progesterone in modo da mimare, indipendentemente dal momento in cui avviene l’ovulazione, gli stimoli ormonali a cui l’endometrio è sottoposto durante un normale ciclo ovarico. Questa modalità richiede alla donna circa 15-20 giorni di preparazione e monitoraggio.
11. Quali sono i fattori che determinano il fallimento dell’impianto?
I fattori che possono impedire l’impianto sono certamente molteplici, anche se rimangono in parte oscuri. Molti embrioni possono svilupparsi in vitro fino al momento del trasferimento in utero ma, poi, subire un arresto prima della fase dell’impianto nell’endometrio o subito dopo. Il non impianto o il precoce arresto può verificarsi per effetto di alterazioni dell’assetto cromosomico (cosiddette aneuploidie ossia uno o più cromosomi in eccesso o in difetto rispetto all’assetto cromosomico normale) analogamente a quanto avviene anche in natura. Bisogna, a questo proposito, ricordare che gli ovociti sono generati durante la vita fetale e subiscono una maturazione lunghissima, circa 20-40 anni, che li espone a possibili danni cromosomici. Questa è la ragione per cui le patologie cromosomiche e gli aborti precoci sono maggiormente frequenti nelle donne che concepiscono, anche naturalmente, avanti nell’età.
L’assetto cromosomico, comunque, non spiega tutti i casi di fallimento di impianto. Infatti, embrioni cromosomicamente normali e identificati come tali tramite apposite analisi genetiche eseguite prima dell’impianto (screening di tutti i cromosomi eseguito prima di trasferirli nell’utero materno) non sempre riescono ad annidarsi nell’utero. Probabilmente altri fattori embrionali non-cromosomici contribuiscono a determinare la capacità di impianto.
La recettività dell’endometrio, inoltre, ha un ruolo importante nell’impianto, anche se meno determinante rispetto a quello dell’embrione. L’endometrio è recettivo all’impianto solo per alcuni giorni nel corso dell’intero ciclo mestruale. È possibile in alcuni casi che la recettività dell’endometrio non sia ben coordinata con la capacità d’impianto dell’embrione, anch’essa di durata limitata. Pertanto, una fase inadeguata dell’endometrio (troppo anticipato o ritardato rispetto allo stadio evolutivo dell’embrione) potrebbe essere un causa di fallito impianto.
L’inseminazione Intrauterina raccontata da Guido Ragni, Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano
Lo scorso 2 marzo si è svolto a Milano, l’incontro “Esperienze di Procreazione Medico Assistita in Lombardia”, evento sponsorizzato dall’azienda farmaceutica Ferring.
L’obiettivo dell’incontro, che ha visto la partecipazione della maggior parte dei Centri di Procreazione Medico Assistita presenti in Lombardia, era quello di analizzare, valutare e discutere le esperienze di PMA compiute dai vari centri, esaminando nello specifico dei casi clinici reali. L’evento ha quindi consentito non solo la presentazione delle principali tecniche di PMA, ma anche la discussione sulle loro indicazioni, risultati e complicanze.
Il seminario è stato introdotto dal Prof. Guido Ragni, Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, che oggi abbiamo il piacere di intervistare.
1. Buongiorno Dott. Ragni, la ringraziamo per la sua disponibilità a parlarci di Inseminazione intrauterina. Iniziamo subito col chiederle in che cosa consiste la tecnica dell’inseminazione intrauterina, in particolare le chiederei di spiegarci come avviene, cosa deve fare la coppia per prepararsi all’inseminazione.
La procedura di inseminazione intrauterina è la più semplice tra le procedure di Procreazione Medico Assistita ed è quella che più si avvicina al normale processo di fecondazione in quanto la fecondazione stessa avviene in vivo, cioè nel corpo della donna.
La procedura prevede essenzialmente 3 momenti:
– il primo momento è una blanda stimolazione ormonale che viene eseguita per essere certi dell’ovulazione ed avere anche la certezza di praticare l’inseminazione nel giorno giusto in quanto l’ovulazione verrà monitorata con 3-4 ecografie vaginali nel corso del ciclo. La stimolazione deve essere, come ho detto, molto limitata, blanda,con l’obiettivo di evitare la crescita di più follicoli e questo naturalmente per evitare gravidanze multiple;
– il secondo momento è la preparazione del liquido seminale che consiste nel selezionare in laboratorio gli spermatozoi più mobili. Quindi gli spermatozoi non vengono manipolati ma semplicemente separati. Questi spermatozoi saranno quelli che vengono successivamente inseminati, ovvero inseriti in utero.
– Il terzo ed ultimo momento è per l’appunto l’inseminazionenell’utero con un sottile catetere attraverso il collo dell’utero stesso, degli spermatozoi preparati. La procedura è assolutamente indolore, ambulatoriale, la paziente rimane qualche minuto sul lettino e poi può successivamente praticare la sua normale attività giornaliera.
2. Secondo i dati raccolti, quante coppie riescono ad avere un bimbo grazie ad interventi di primo livello come la IUI?
Nei 300 centri italiani che praticano circa 30.000 cicli di inseminazione ogni anno, i risultati dal 2005 in poi fino al 2011 sono sempre stati molto stabili. Il 10% per ciclo. Attenzione però, per leggere correttamente questo risultato è necessario rapportare la percentuale di successo all’età della donna. Dal 2005 in poi, l’età media della donna è stata di 35 anni con il 20% quindi 2 donne su 10 oltre i 40 anni. I risultati oltre i 40 anni si dimezzano, non più il 10% per ciclo ma solo il 5% per ciclo, mentre intorno ai 30 anni i risultati sono tra il 15% e il 20% per ciclo. Se confrontiamo questi dati a quanto avviene normalmente in una coppiafertile, vediamo che i risultati non sono molto dissimili. Infatti la razza umana ha un indice di fecondità per ciclo molto basso, e solo del 22-23% in una coppia fertile con donna di 20-25 anni, e in una donna di 35 anni scende al 15%, quindi non molto lontana dal 10% che si ottiene con l’inseminazione in donne di pari età.
3. Durante l’evento tenutosi il 2 marzo presso la Mangiagalli e promosso dall’azienda farmaceutica Ferring, si è acceso un vivace dibattito sull’efficacia della IUI poiché i dati relativi al successo di questa pratica sono molto bassi. Perchè secondo Lei, da cosa dipendono gli alti numeri di insuccesso?
La maggior parte di insuccessi dipende essenzialmente da due fattori:
– il primo è dovuto a quanto detto prima, l’età; l’età della donna è estremamente importante, eseguire l’inseminazione in una donna di oltre 40, 42 anni significa andare incontro ad un alto numero di insuccessi;
– il secondo fattore fondamentale è una corretta indicazione: 3 sono infatti le indicazioni nelle quali l’inseminazione può avere il massimo dei risultati: la prima è l’infertilità maschile. Voglio sottolineare che inseminare meno di 3 milioni di spermatozoi mobili espone ad un quasi sicuro insuccesso; secondo, l’infertilità causa sconosciuta, vale a dire quando tutti gli esami sulla coppia sono normali e dopo un anno non si sia ancora ottenuta la gravidanza; terza indicazione, difficoltà ovulatoria della donna con conseguente difficoltà ad avere rapporti nella cosiddetta finestra fertile del ciclo.
4. Ma secondo lei, è sempre necessario per le coppie tentare la IUI o forse non sarebbe meglio passare direttamente a pratiche di secondo livello?
Io credo che nelle corrette indicazioni sia utile eseguire una inseminazione intrauterina, anche per seguire, credo, la gradualità di terapia, dalla più semplice alla più complicata come la fecondazione in vitro, gradualità voluta anche dalla legge 40/2004 sulla procreazione medica assistita.
5. Dopo quanti tentativi di IUI si può accedere alle tecniche di secondo livello?
Sempre la Legge 40 permette l’esecuzione fino ad un massimo di 6 inseminazione intrauterine. Credo però sinceramente, che in maniera ragionevole non sia utile eseguirne più di 3, in quanto a differenza della fertilizzazione in vitro, i risultati diminuiscono sensibilmente dalla prima alla terza inseminazione e sono praticamente ridotti dopo la terza.