Mese: Novembre 2016

Diventare madri? La cosa più naturale al mondo purché non sia un obbligo sociale. I rischi associati alle opportunità della procreazione medicalmente assistita

Le vite che facciamo oggi noi donne (e non solo noi) ci impongono ritmi sempre veloci, adeguamento a situazioni lavorative, sociali ed economiche complesse e, di conseguenza, poco tempo da dedicare a noi stesse e a un progetto famiglia per molte desiderato ma difficile da realizzare. Ecco così che gli anni passano e, ahinoi, gli ovociti invecchiano. E, quando ci sentiamo pronte e nelle condizioni adeguate per poter avere un figlio, il figlio non arriva. Dopo un paio d’anni di tentativi falliti di rimanere incinta per vie naturali viene dichiarata, nella stragrande maggioranza dei casi, una condizione d’infertilità di coppia  e molti iniziano a pensare a soluzioni alternative, come la procreazione medicalmente assistita. Una bellissima opportunità dovuta agli eccezionali progressi della medicina, una possibilità che anche solo ai tempi delle nostre madri non esisteva.

La procreazione medicalmente assistita deve essere una scelta ragionata e consapevole

Occorre fare una riflessione. Una volta, pur essendo spesso stigmatizzante, si accettava l’impossibilità di procreare come qualcosa di naturale, seppur doloroso. Oggi no perché sappiamo che esiste una buona alternativa: la procreazione medicalmente assistita. Va posta, però, seria attenzione ai rischi associati a questa possibilità: l’urgenza di diventare madri deve essere, appunto, delle potenziali future madri e solo loro. Serve vigilare affinché nessuna donna senta una sorta di pressione – o ancor peggio di minaccia – nella scelta di mettere al mondo un figlio. La procrezione medicalmente assistita è un cammino duro e faticoso, non tutte le donne sono in grado di affrontarlo con serenità o sono fisiologicamente idonee a intraprenderlo. In più, c’è tutta una questione psicologica da vagliare con estrema cura. Aspetti questi da tenere in assoluta considerazione per capire davvero fino a che punto si vuole un figlio, e dunque se si è pronte ad affrontare anche possibili delusioni e frustrazioni, oppure se si sta rispondendo solo a un nuovo imperativo sociale dei nostri tempi per cui, avendo svariate possibilità di riuscirci, le donne oggi sono destinate a diventare madri.

 

Pubblicata su Nature Genetics, una ricerca dimostra che fertilità e geni sono strettamente correlati. Ecco come!


Oggi, forse per la maggioranza delle coppie, è sempre più difficile diventare genitori. I fattori che influenzano la maternità sono davvero molti: dall’età più avanzata delle donne, ai condizionamenti sociali ed economici, e ora uno studio dimostra anche che c’è una stretta correlazione tra fertilità e geni.

Una metanalisi del progetto Sociogenome individua per la prima volta un legame tra fertilità e geni

La ricerca, pubblicata su Nature Genetics, ha coinvolto un nutrito gruppo d’importanti scienziati, tra cui esperti in materia di fertilità che hanno studiato 12 aree del genoma umano associate all’età in cui donne e uomini hanno il primo figlio e al numero complessivo di figli che avranno nell’arco della loro vita. Se decisioni personali e fattori sociali sono ancora al primo posto nel determinare l’avvio di una gravidanza, oggi appare però chiaro che anche fertilità e geni “pesano” un bel po’. Ma in che modo?

Dodici le varianti genetiche coinvolte nello spiegare sia l’età del primo figlio sia il numero di figli

La metanalisi, coordinata dal’équipe del progetto Sociogenome dell’Università di Oxford, ha preso in esame ben 62 dataset contenenti dati di donne e uomini provenienti da tutto il mondo. Gli studiosi, nel cercare i geni associati all’età del primo figlio e al numero totale dei figli hanno lavorato su dati riguardanti sia la genetica sia il comportamento riproduttivo. In pratica, sono state scoperte 12 varianti genetiche determinanti nello spiegare sia l’età del primo figlio sia il numero di figli, alcune delle quali sono implicate in meccanismi legati al comportamento riproduttivo, come per esempio, endometriosi o sindrome dell’ovaio policistico.

C’è una precisa relazione tra fertilità e geni con un influsso genetico tra il 15 e il 40 per cento

Rispetto al passato in cui ci si focalizzava molto sulle condizioni cliniche legate all’infertilità, gli scienziati hanno voluto concentrarsi sul comportamento riproduttivo valutandolo come qualcosa che dipende sia dalla biologia sia dalle decisioni personali.

Se le varianti genetiche identificate spiegherebbero meno dell’1 per cento dell’età del primo figlio e del numero di figli che si avranno nel corso della vita, questa piccola percentuale rappresenta comunque un dato importante perché identifica il ruolo genetico dell’1 per cento di quella variabilità. Si è capito che l’età al primo figlio e il numero dei figli si trasmettono ereditariamente: non si tratta, quindi, solo di un aspetto sociale, ma si stabilisce una precisa relazione tra fertilità e geni con un influsso genetico che si attesta intorno al 15-40 per cento. Ecco perché gli studiosi sono andati a cercare quali fossero i geni responsabili.

I geni responsabili di età del primo figlio e numero di figli sono gli stessi nell’uomo e nella donna

Ne è emerso un dato interessante: i geni che vanno a influenzare a quale età una donna avrà il primo figlio e quanti figli avrà sono gli stessi sia nella nella donna sia negli uomini. Per le donne, però, c’è da considerare in modo serio la variante età in relazione alla fertilità anche se ancora non si sa bene come mai alcune possano avere figli fino a un’età avanzata, mentre altre no.

In questo senso, dunque, studiare una relazione tra fertilità e geni potrebbe essere la chiave di volta per capire le ragioni di un’“età fertile” più prolungata in alcune donne.

 

 

I fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA, se valutati in anticipo, possono aiutare i medici a reinstradare le pazienti nell’iter terapeutico.

Dopo aver descritto i motivi e le principali situazioni che portano una coppia al drop-out della PMA, ovvero a decidere di abbandonare il percorso diagnostico-terapeutico per l’infertilità, è opportuno, infatti, esaminare i cosiddetti fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA.
Valutare per tempo i suddetti fattori, dunque, può essere un buon aiuto per gli specialisti a individuare le coppie più propense all’abbandono e a intervenire nel modo giusto per far capire l’importanza dell’aderenza all’iter terapeutico.

Tre le variabili ascrivibili tra i fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA

I fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA sono legati prevalentemente a tre variabili. Analizziamoli nel dettaglio.

  1. Storia dell’infertilità: abbandonano più facilmente le coppie che:
  • hanno già avuto un figlio;
  • in cui la causa dell’infertilità è maschile;
  • le donne con endometriosi e con problemi cronici di ovulazione.
  1. Tipo di trattamento: abbandonano più facilmente le pazienti:
  • sottoposte a regimi terapeutici molto aggressivi;
  • quelle in cui è stato recuperato un basso numero di ovociti, in cui l’embryo transfer non è stato effettuato per mancata fertilizzazione degli ovuli;
  • chi ha avuto una gravidanza esitata in aborto;
  • che hanno aspettato un tempo troppo lungo tra un trattamento e un altro.
  1. Tipologia di pazienti: correlati negativamente al completamento dei trattamenti sono:
  • età avanzata;
  • fattori psico-sociali;
  • difficoltà economiche;
  • problemi di relazione di coppia;
  • basso livello sociale;
  • fattori personali quali idiosincrasia, motivi etici, ansia e depressione, logistica, paura per la propria salute, altre scelte come l’adozione.

Riferimenti bibliografici
1. Verhagen et al, Human Reproduction 2008, 23: 1793-99
2. Gameiro et al, Human Reproduction Update 2012, Nov, 18(6): 652-69
3. M. Brandes et al, Human Reproduction 2009 vol 24, N° 12: 3127-35
4. S. Gameiro et al, Human Reproduction Update, 2012, vol 0, pp 1-12
5. Domar et al, Human Reproduction 2012, n°4, pp 1073-79

Dott.ssa Luciana De Lauretis