Le difficoltà di concepimento possono avere natura e causa diverse. Per affrontarle e superarle, la Procreazione Medicalmente Assistita è un percorso di comprovata efficacia nella terapia della sterilità di coppia.
Gli ultimi dati dell’ISS-Istituto Superiore di Sanità relativi al 2020 attestano che l’efficacia dei trattamenti continua a migliorare.
Quali sono le indicazioni per i diversi tipi di trattamento di PMA? Lo abbiamo chiesto al Dottor Vincenzo Marrone, specialista in ginecologia e medicina della riproduzione.
La definizione di coppia infertile
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (2010) e l’American Fertility Society (2016) una coppia è da considerarsi infertile quando non è in grado di concepire e di avere un bambino dopo un anno o più di rapporti sessuali; viceversa è da considerarsi sterile quella coppia nella quale uno od entrambi i coniugi sono affetti da una condizione fisica permanente che non renda possibile avere dei bambini.
L‘infertilità secondaria
In aggiunta vengono definite affette da infertilità secondaria, quelle coppie che non riescono ad avere un bambino dopo una gravidanza coronata da successo.
Le cause di infertilità/sterilità possono essere attribuite a fattori maschili (anomalie di produzione ed escrezione di spermatozoi) nel 20-30% dei casi, a fattori femminili (disturbi ovulatori, patologie ovariche, difetti tubarici, cervicali e malformazioni uterine) nel 20-35% (Cunningham J 2017).
La situazione in Italia
L’Italia si colloca agli ultimi posti tra i paesi del mondo per tasso di fertilità con una media di 1,39 figli per donna e si stima che 1 coppia su 5 abbia difficoltà a concepire naturalmente (Ministero della Salute, “Tavolo consultivo in materia di tutela e conoscenza della fertilità e prevenzione delle cause di infertilità” per il piano nazionale per la fertilità, 2015).
Le cause dell’incremento dei casi di infertilità/sterilità possono ricondursi a:
età media dei coniugi al momento del matrimonio, mediamente più elevata rispetto al passato;
difficoltà ed esigenze sociali che inducono la coppia a programmare il concepimento in un’epoca più tardiva;
incremento delle malattie sessualmente trasmesse;
stress;
abitudini voluttuarie (fumo, alcol, ecc.);
nuovo ruolo sociale della donna che, essendo sempre più allontanata dal nucleo familiare, convive sempre meno con il proprio coniuge.
Il ruolo della PMA nella terapia della sterilità di coppia
La PMA costituisce un mezzo di comprovata efficacia nella terapia della sterilità di coppia. La legge 40, formulata nel 2004, ha introdotto il concetto di “progressività” nell’approccio terapeutico alla coppia infertile/sterile, classificando le tecniche di PMA come segue (cfr art. 7):
tecniche di primo livello: anche dette intracorporee, procedure in cui la fecondazione dell’ovocita si verifica “in vivo”, prive di ricorso ad anestesia;
tecniche di secondo livello: procedure contrassegnate dal prelievo dei gameti femminili eseguito in anestesia locale o in sedazione profonda e dalla fertilizzazione “in vitro” dei gameti.
Le prime consistono nell’inseminazione intrauterina (IUI o AIH), ovvero nella inoculazione via catetere di spermatozoi, opportunamente preparati in laboratorio, nella cavità uterina.
Le metodiche di “fertilization in vitro with embryo transfer” (FIVET) e “intracitoplasmatic sperm injection” (ICSI) costituiscono invece le tecniche di secondo livello, progressivamente perfezionate nel corso degli anni, fino a diventare procedure affidabili e con ottimi risultati in termini di efficacia. Entrambe prevedono una manipolazione dei gameti femminili (ovocita) e maschili (spermatozoo) ed una successiva fecondazione in vitro.
Con tali procedure, la fertilizzazione degli ovociti, prelevati direttamente dall’ovaio (fig.1), viene effettuata in vitro, ossia al di fuori della sede anatomica preposta (tratto terminale delle tube).
L‘approccio terapeutico alla coppia infertile
Come già anticipato la legge 40/2004, stabilisce il concetto di “gradualità” nell’approccio terapeutico alla coppia infertile. Una volta effettuata la diagnosi di infertilità è necessario instaurare un work-up diagnostico terapeutico che riesca a coniugare un approccio graduale ma che eviti spreco di tempo, per non allungare il time to pregnancy (tempo necessario alla coppia per raggiungere la gravidanza) e per evitare il drop out dal percorso di cura.
In linea generale il primo approccio prevede l’analisi dei principali fattori che possano determinare il mancato ottenimento della gravidanza per incanalare la coppia nel trattamento più adeguato a quella data situazione clinica.
I fattori da considerare
In particolare, i dati più salienti da valutare in una coppia in apparente buona salute sono:
Età della coppia e anni di sterilità
Pervietà tubarica
Pervietà cervicale
Presenza di cicli ovulatori e valutazione della riserva ovarica della paziente
Valori del liquido seminale
Le indicazioni terapeutiche
In una coppia infertile giovane, in apparente buona salute, dove nessuno di questi fattori elencati risulti alterato (infertilità idiopatica) o dove al massimo vi sia una compromissione lieve del liquido seminale o una impervietà tubarica monolaterale è possibile eseguire un monitoraggio dell’ovulazione con rapporti mirati.
In caso di fallimento ripetuto di monitoraggi dell’ovulazione o talvolta come primo approccio in coppie che presentano una storia di infertilità di più anni è possibile eseguire invece una tecnica di I livello e quindi un’inseminazione intrauterina o AIH.
Laddove sia presente impervietà tubarica bilaterale (rilevata mediante isterosalpingografia o sonoisterosalpingografia), compromissione severa del liquido seminale, o dove vi siano fallimenti ripetuti delle tecniche di primo livello è indicato proporre alla coppia una tecnica di II livello e quindi a seconda del caso FIVET o ICSI. Queste tecniche possono essere eseguite con gameti della coppia o con donazione di gameti maschili/femminili in caso di azoospermia o riserva ovarica estremamente ridotta con mancata risposta alla stimolazione ovarica controllata.
Questo grafico tratto dal 16° report ISS sull’attività dei centri PMA in Italia mostra la percentuale relativa alle indicazioni all’esecuzione di una tecnica di FIVET o ICSI senza e con donazione di gameti.
Fonti:
ISS – Istituto Superiore di Sanità, Attività del Registro Nazionale italiano della procreazione medicalmente assistita. Attività 2020. Disponibile a questo link.
Cunningham J, Infertility: A Primer for Primary Care Providers. JAAPA, 30(9), 19-25 Sep 2017.
Per approfondire, leggi anche:
La prevenzione primaria della salute, inclusa quella riproduttiva, è fondamentale e l’informazione ha un ruolo chiave, soprattutto sui giovani.
Il “Progetto Prevenzione Salute Riproduttiva” proposto dalla SIRU-Società Italiana di Riproduzione Umana in collaborazione con la Rete della Fertilità di Caltanissetta è un esempio concreto di come si possa stimolare nei giovani la riflessione su un tema così importante per il loro futuro.
Ce lo illustra la Dottoressa Maria Giuseppina Picconeri, ginecologa membro del Direttivo Nazionale S.I.R.U. e Responsabile del Centro di PMA “Nike Medical Center” di Roma.
In cosa consiste il Progetto Prevenzione Salute Riproduttiva?
Si tratta di un progetto volto a sensibilizzare le nuove generazioni, i genitori del futuro, sull’importanza della cura della propria salute e della propria fertilità, affinché possano effettuare scelte consapevoli e responsabili nell’ambito della propria vita sessuale e riproduttiva.
Troppo spesso, infatti, i giovani non sono consapevoli dell’impatto che uno stile di vita corretto, una sessualità responsabile, anche l’inquinamento ambientale, possono avere sulla loro capacità di generare una vita.
Perché il progetto è così importante per SIRU?
La SIRU è impegnata da anni ad affrontare la formazione e l’informazione sulla Salute Riproduttiva negli adolescenti, al fine di prevenire stili ed abitudini di vita correlabili all’insorgenza di patologie dell’apparato riproduttivo in età adolescenziale che poi, in età adulta, possono condurre a condizioni di ipofertilità o sterilità, compromettendo il progetto genitoriale di una coppia.
Il progetto intende contribuire anche ad affrontare il tema della denatalità che, in Italia, è oramai un problema strutturale che sta provocando una pericolosa riduzione della popolazione.
Com’è strutturato il progetto?
Il progetto si realizza in due fasi differenti, con il contributo del personale sanitario coinvolto nell’attività clinico-scientifica della SIRU (Ginecologi, Andrologi, Ostetriche, Biologi, Nutrizionisti, Psicologi). La SIRU, avvalendosi anche dell’esperienza maturata dalla Rete della Fertilità di Caltanissetta, mette a disposizione l’esperienza maturata e le professionalità necessarie per sostenere le diverse fasi del progetto.
Ci parli del Progetto-pilota
Abbiamo dato vita ad un progetto-pilota, una prima esperienza istituzionale che ha creato un network territoriale tra Enti locali e strutture sanitarie al fine di creare team multidisciplinari per portare ai giovani delle scuole medie inferiori e superiori, in maniera integrata, i temi della salute riproduttiva, dell’affettività e della sessualità.
Abbiamo coinvolto in totale 250 giovani in 12 classi di 1 scuola, di età compresa tra i 15 e i 16 anni.
I risultati sono sorprendenti, ci auguriamo che il Ministero della Salute e il Ministero dell’Istruzione, ciascuno per competenza, promuovano e sostengano l’iniziativa coinvolgendo le Regioni, le ASP/ASL, gli Uffici Scolastici Regionali e tutte le altre Istituzioni di pertinenza.
Come si è articolata la prima fase?
La prima fase era rivolta alle classi III degli istituti scolastici superiori, con l’obiettivo generale di promuovere un atteggiamento positivo e responsabile nei confronti della sessualità, della gestione delle emozioni e dell’emotività e della propria salute riproduttiva.
I docenti di scienze hanno “ospitato” i moduli teorici tenuti dal personale sanitario. I ragazzi hanno partecipato a turno, diventando loro stessi docenti presso i compagni di classe – nel corso di moduli intermedi – di quanto acquisito su temi quali l’affettività, la salute, la salute riproduttiva, la contraccezione, le malattie sessualmente trasmesse, le abitudini alimentari, senza trascurare ruolo e funzione dei consultori sul territorio.
L’ultimo incontro era dedicato all’esposizione dei lavori di gruppo realizzati dai ragazzi.
Nella prima fase sono state coinvolte 12 classi, con 24/25 partecipanti per ognuna. La presenza dei ragazzi agli incontri è stata del 90%.
Qual è stato l’impatto della metodologia peer education utilizzata?
La metodologia didattica di peer education ha riscosso enorme successo, in termini di interesse, coinvolgimento ed efficacia nell’acquisire i contenuti affrontati.
Ci parli della seconda fase
Le attività previste nella seconda fase sono rivolte alle classi del III dell’anno successivo delle stesse scuole superiori con l’obiettivo generale di informazione, tutela della salute riproduttiva e sessuale maschile e femminile e prevenzione per i giovani, ovvero i futuri genitori di domani.
Com’è articolata?
L’informazione, a questo punto, viene ottenuta direttamente dai loro peer (studenti dell’anno precedente) con la supervisione dei Tutor (Specialisti S.I.R.U e Professori di scienze dell’Istituto stesso).
Nell’arco di 12 mesi si tengono degli incontri con gli operatori sanitari, organizzati presso centri PMA o i centri universitari.
A tutti si offre la possibilità di svolgere un tirocinio informativo presso centri italiani di PMA.
Secondo un recente rapporto OMS una persona adulta su sei nel mondo soffre di infertilità nel corso della vita.L’enorme percentuale di persone colpite mostra la necessità di ampliare l’accesso alle cure per la fertilità.
Una persona su sei nel mondo, circa il 17,5% della popolazione adulta, soffre di infertilità nel corso della vita: è quanto emerge dal rapporto “Infertility prevalence estimates”, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
Il report
L’obiettivo del report è di fornire delle stime sulla prevalenza regionale e globale dell’infertilità attraverso l’analisi di tutti gli studi di rilievo prodotti tra il 1990 e il 2021.
“Questo rapporto è il primo del suo genere in un decennio e rivela un’importante verità: l’infertilità non discrimina.” Questo il commento del direttore generale dell’OMS Tedros Ghebreyesus, che aggiunge: “Per milioni di persone in tutto il mondo “il percorso verso la genitorialità può essere difficile, se non impossibile” e questo “indipendentemente da dove vivono e dalle risorse di cui dispongono. L’enorme percentuale di persone colpite – aggiunge – mostra la necessità di ampliare l’accesso alle cure per la fertilità e garantire che questo problema non sia più messo da parte nella ricerca e nella politica sanitaria”.
Infertilità e accesso alle cure
L’infertilità, definita dall’OMS come la mancata gravidanza dopo 12 mesi di rapporti sessuali regolari non protetti, “può causare un disagio significativo, stigma e difficoltà finanziarie, influenzando il benessere mentale e psicosociale delle persone“ – si precisa nel rapporto.
Dai dati emerge che circa il 17,5% della popolazione adulta mondiale soffre di infertilità, con una variazione limitata nella prevalenza tra le Regioni, stimata al 17,8% nei Paesi ad alto reddito e al 16,5% nei Paesi a basso e medio reddito. Il rapporto evidenzia inoltre una mancanza di dati in molti Paesi ed esorta una maggiore disponibilità di cifre nazionali.
Nonostante l’entità del problema, le soluzioni per la prevenzione, la diagnosi e il trattamento dell’infertilità, comprese le tecnologie di riproduzione assistita come la fecondazione in vitro, rimangono sottofinanziate e inaccessibili per molte persone.
“Migliori politiche e finanziamenti pubblici possono migliorare significativamente l’accesso alle cure” – afferma l’OMS.
Aumentano i casi di diabete in gravidanza: è quanto emerge da una ricerca presentata dai ricercatori della SID – Società Italiana di Diabetologia al 56mo congresso della EASD, Associazione Europea per lo Studio del Diabete. Sembra, infatti, che le donne che presentano diabete gestazionale (GDM) in gravidanza siano sempre più numerose. La conseguenza è strettamente connessa all’aumento dell’obesità, anche in età riproduttiva, e alla prevalenza del diabete tipo 2.
La ricerca
I ricercatori hanno studiato una casistica di oltre 600 pazienti con diabete gestazionale. Nella ricerca, hanno considerato questi parametri: le caratteristiche metaboliche delle madri, gli esiti materno-neonatali e la salute delle donne dopo il parto. La ricerca si è svolta presso l’Azienda Ospedaliera di Perugia e ha considerato donne trattate nel triennio 2013-2015, rispetto a quelle gestite nel periodo 2016-2018. Intervistata da Repubblica, la dottoressa Sara Parrettini, della Struttura Complessa di Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Azienda Ospedaliera di Perugia, ha commentato: “Ma le caratteristiche metaboliche delle gestanti – afferma – negli ultimi anni si stanno modificando. Aumentano le donne con insulino-resistenza e i risultati della curva da carico glucidico sono diversi da quelli delle donne che sviluppavano diabete in gravidanza fino a qualche anno fa”.
La gestione personalizzata della gravidanza
Nella stesa intervista, la dottoressa Parrettini ha concluso: “Le caratteristiche metaboliche delle donne in gravidanza devono essere considerate sin dall’inizio della cura della paziente. E’ necessario gestire in maniera personalizzata la gravidanza complicata dal GDM”. L’obiettivo di questo approccio è raggiungere “esiti neonatali sovrapponibili a quelli di una gravidanza fisiologica”. Inoltre, consentirebbe di “predisporre strategie di protezione per la salute futura, mirate a ridurre il rischio di progressione verso qualsiasi forma di iperglicemia post-gravidanza”.
Anche la dottoressa Elisabetta Torlone, responsabile Servizio di Diabete e Nutrizione in Gravidanza della stessa struttura ospedaliera ha commentato i risultati. “La gravidanza rappresenta un momento fondamentale nella vita di una donna. La diagnosi di diabete gestazionale pone un grave problema di salute globale a causa delle relative complicanze micro e macro-vascolari, del successivo diabete di tipo 2 e dell’impatto sulla salute futura delle giovani generazioni. La nostra casistica suggerisce di porre attenzione alle modifiche dell’OGTT sia in gravidanza che nel follow up post parto, per definire delle strategie sempre più specifiche per la prevenzione del diabete di tipo 2 e delle patologie metaboliche”.
Il commento della SID
Il Presidente eletto della SID Agostino Consoli ha commentato i risultati della ricerca. “Il diabete gestazionale è in aumento e diventa un problema sempre più importante anche perché maggiormente prevalente in etnie che sono sempre più rappresentate nel nostro Paese grazie all’aumento dell’immigrazione e perché più prevalente in donne che giungono alla gestazione in età meno giovane, come sempre più accade nelle società occidentali. Per fortuna in molti dei nostri Servizi di Diabetologia esistono ambulatori dedicati a questa condizione, che si avvalgono della collaborazione di diabetologi, ginecologi e neonatologi.”
Da anni è in atto una stretta collaborazione tra SID ed AMD. Le due Società Scientifiche hanno costituito, insieme, un gruppo di studio dedicato alle problematiche del diabete gestazionale. Questa collaborazione ha prodotto e continua a produrre lavori scientifici molto rilevanti di livello internazionale.
“PMA per tutte” è il nome dato alla nuova legge approvata recentemente dal Parlamento francese. Le novità più rilevanti sono due. Anzitutto, l’estensione della procreazione medicalmente assistita (PMA) a tutte le donne di età inferiore a 43 anni. In secondo luogo, la possibilità per i giovani con più di 18 anni di conoscere l’identità di chi ha donato lo sperma o gli ovociti. I costi saranno a carico del sistema sanitario francese. Rimane il divieto per la maternità surrogata.
L’approvazione
La norma in materia di bioetica è stata approvata dall’Assemblea Nazionale dopo due anni di accesi dibattiti, con 326 voti a favore, 115 contrari e 42 astenuti.
L’accesso alle tecniche di fecondazione assistita in Francia era riservato alle coppie eterosessuali con difficoltà di concepimento, anche solo conviventi. La nuova legge apre a tutte le donne, seppure con il limite dell’età massima a 43 anni e l’obbligo di un percorso clinico di approfondimento con numerosi colloqui. Inoltre, per quanto riguarda le coppie lesbiche, durante la gravidanza sarà necessaria una dichiarazione davanti al notaio, perchè entrambe vengano riconosciute mamme del nascituro.
La Francia e il resto d’Europa
La Francia si allinea dunque ad altri Paesi in Europa, dove si recavano le donne single o le coppie omosessuali, circa 2400 persone l’anno, secondo un’inchiesta pubblicata dal quotidiano cattolico Croix. Norme analoghe sono in vigore ad esempio in Spagna, Belgio, Malta e, fuori dall’UE, in Regno Unito, Islanda e Norvegia. Ricorrere alla PMA all’estero può risultare anche molto oneroso, mentre d’ora in poi i costi saranno a carico della sanità pubblica per tutte le donne francesi.
Conoscere l’identità dei donatori
La legge introduce anche un’altra novità per tutti i maggiorenni nati con le tecniche di PMA. Infatti, per loro sarà possibile ottenere informazioni sull’identità dei donatori di sperma o di ovociti. In ogni caso, non verrà comunque legalmente riconosciuto nessun legame di filiazione con il donatore.
I primi concepimenti
Le Autorità francesi stanno velocizzando il più possibile l’iter della legge, in modo che i primi concepimenti possano avvenire entro la fine del 2021.
La competizione tra spermatozoi è feroce: tutti vogliono raggiungere per primi la cellula uovo per fecondarla. Un team di ricercatori tedeschi ha scoperto che l’abilità motoria dello spermatozoo dipende da una proteina, la RAC1. Valori ottimali di questa sostanza migliorano la competitività individuale dello spermatozoo, mentre la presenza di quantità anomale della stessa può causare infertilità maschile.
La corsa per la vita
È letteralmente una corsa per la vita: milioni di spermatozoi si dirigono verso le cellule uovo per fecondarle. Cosa determina il successo del vincitore? A quanto pare, ci sono delle differenze di competitività tra i singoli spermatozoi e sono dovute a un segmento di DNA “egoista” (chiamato t-aplotipo) che infrange le regole standard dell’eredità genetica. Il risultato è che gli spermatozoi che lo contengono sono più progressivi, si muovono più velocemente e hanno una percentuale di successo fino al 99%.
Il ruolo della molecola RAC1
La molecola RAC1 è una sorta di interruttore molecolare che trasmette segnali dall’esterno all’interno della cellula, attivando altre proteine. Gli scienziati la conoscono bene perchè è coinvolta in meccanismi biologici che interessano i globuli bianchi e le cellule tumorali. RAC1 potrebbe anche svolgere un ruolo nel dirigere gli spermatozoi verso l’uovo, “annusando” la strada verso il loro obiettivo.
“La competitività della singola cellula spermatica sembra dipendere da un livello ottimale di RAC1 attivo; l’attività RAC1 ridotta o eccessiva interferisce con la capacità di muoversi in avanti in modo efficace”, afferma Alexandra Amaral, scienziata de Max Planck Institute for Molecular Genetics, Berlin e prima autrice dello studio.
I t-sperm avvelenano i loro concorrenti
“Lo sperma con l’aplotipo t riesce a disabilitare lo sperma senza di esso”, afferma Bernhard Herrmann, direttore del MPIMG e dell’Istituto di genetica medica della Charité – Universitätsmedizin di Berlino, e corrispondente autore dello studio. “Il trucco è che l’aplotipo t” avvelena “tutti gli spermatozoi, ma allo stesso tempo produce un antidoto, che agisce solo negli spermatozoi t e li protegge”, spiega lo scienziato. “Immaginate una maratona, in cui tutti i partecipanti si avvelenano con acqua potabile, ma ad alcuni corridori viene dato anche l’antidoto”.
La conclusione dei ricercatori
“I nostri dati evidenziano che gli spermatozoi sono concorrenti spietati”, afferma Herrmann. “Le differenze genetiche possono dare al singolo spermatozoo un vantaggio nella corsa per la vita, promuovendo così la trasmissione di particolari varianti genetiche alla generazione successiva”, afferma lo scienziato.
Forse un giorno non molto lontano un capello ci dirà se siamo fertili. Questo è ciò che emerge da una ricerca presentata al recente congresso dalla ESHRE, la Società europea di riproduzione umana ed embriologia. La ricerca sembra correlare i livelli di ormone antimulleriano presenti nel capello con quelli nei campioni di sangue.
L’ormone antimulleriano (AMH)
L’ormone antimulleriano (AMH) è un indicatore chiave per valutare come le donne possono rispondere ai trattamenti per la fertilità. La misurazione di questo ormone è diventato un marker importante nella medicina della riproduzione. Infatti, consente di stimare se la risposta della paziente alla stimolazione ormonale sarà normale, scarsa (pochi ovociti) o abbondante (a rischio di sindrome da iperstimolazione).
Come si misura l’AMH
L’ormone antimullerriano attualmente si misura attraverso un prelievo di sangue. I risultati, perciò, sono riferibili al momento in cui viene effettuato l’esame. L’analisi del capello effettuata nello studio presentato al congresso annuale dell’ERSHE, invece, risulta essere meno invasiva e in grado di rappresentare i livelli dell’ormone in modo “più appropriato”, come sostiene il Dottor Sarthak Sawarkar che ha presentato lo studio. Infatti, gli ormoni accumulati nei capelli sono rintracciabili per molte settimane, mentre i livelli di ormoni nel sangue possono cambiare nel corso di alcune ore. Un altro vantaggio del test sul capello è la minore invasività rispetto al prelievo di sangue.
Lo studio presentato all’ESHRE
Lo studio, che è tuttora in corso, al momento include i risultati di 152 pazienti. I capelli e il sangue di queste donne sono stati regolarmente raccolti durante le visite mediche. Contemporaneamente, alle pazienti sono stati contati – attraverso una tecnica a ultrasuoni, i follicoli in via di sviluppo, come ulteriore misura della riserva ovarica.
I ricercatori hanno rilevato livelli di AMH “biologicamente rilevanti” nei campioni di capello, con valori in diminuzione all’aumentare dell’età delle pazienti. “I capelli” – spiegano i ricercatori – “possono accumulare biomarcatori per settimane. Il sangue, invece, è una matrice acuta che rappresenta livelli ormonali momentanei. Mentre i livelli ormonali possono variare rapidamente nel sangue, in risposta a stimoli, quelli presenti nei capelli sono il risultato di accumuli nel corso di settimane. Una misurazione che utilizzi un campione di capelli può rappresentare meglio il livello ormonale medio”.
Qual è l’impatto della PMA sulla crescita dei bambini nati con queste tecniche? Alcuni ricercatori hanno tentato di dare una risposta.
I bambini nati con la PMA hanno dei pattern di crescita diversi rispetto ai bambini concepiti naturalmente. Le differenze si mantengono fino ai 17 anni circa, poi sembrano scomparire. Questo è ciò che hanno osservato i ricercatori norvegesi del Centre for Fertility and Health presso il Norwegian Institute of Public Health di Oslo. Il loro studio è stato recentemente pubblicato su Human Reproduction [1].
Lo studio
I ricercatori, guidati dalla Dr.ssa Dr Maria Magnus, hanno analizzato migliaia di informazioni. I dati riguardavano 81.461 bambini arruolati nello studio norvegese MoBa (Mother, Father and Child Cohort Study) e 544.113 teenager sottoposti a screening per il servizio militare. In particolare, 79.740 soggetti concepiti naturalmente e 1.721 con tecniche di procreazione medicalmente assistita, fino all’età di 7 anni. Tra quelli concepiti naturalmente, 5.279 sono nati da genitori con difficoltà di concepimento, che hanno impiegato oltre 12 mesi prima di ottenere una gravidanza. Tra i soggetti nati con PMA, per 1.073 sono stati utilizzati embrioni freschi, per 179 embrioni congelati.
I risultati
I bambini nati con PMA avevano alla nascita un peso medio e una lunghezza media inferiore rispetto a quelli concepiti naturalmente. Tuttavia, i bambini nati con PMA hanno avuto una crescita più rapida nei primi 18 mesi di vita. Inoltre, questi ultimi a un anno erano leggermente più alti e più forti dei primi. Tale differenza si è mantenuta fino ai sette anni.
I ricercatori hanno anche analizzato i dati dei diciassettenni e hanno trovato differenze minime tra i ragazzi concepiti naturalmente e quelli nati da PMA.
Il commento dei ricercatori
Come è noto, l’uso di tecniche di PMA è associato a un peso alla nascita inferiore rispetto al concepimento naturale. Tuttavia, sostengono i ricercatori, i dati emersi dallo studio dovrebbero rassicurare i genitori. “Rilevare che non c’è differenza nell’altezza, nel peso e nel BMI dei bambini concepiti con PMA rispetto a quelli concepiti naturalmente all’età di 17 anni è rassicurante. Il nostro studio è il primo ad evidenziare chiare differenze nei pattern di crescita tra bambini concepiti con embrioni freschi o congelati, differenze che persistono fino all’età scolare – ha commentato la Dr. Maria Magnus. Occorre avviare nuovi studi per valutare le ragioni di queste differenze. Inoltre, occorre un follow-up più lungo per capire se la crescita accelerata che abbiamo osservato nei bambini concepiti con PMA nei loro primi anni di vita può avere un impatto sulla loro salute futura.”
Ricerca: scoperta una nuova arma anti-sterilità? Alcuni ricercatori dell’Università della California a San Diego potrebbero aver scoperto una nuova arma anti-sterilità. E’ quanto emerge dallo studio pubblicato sulla rivista dell’Accademia delle scienze degli Stati Uniti (Pnas). Utilizzando i dati relativi a più di 30 biopsie di testicoli umani, i ricercatori americani guidati da Miles Wilkinson sono riusciti a determinare le condizioni giuste per riuscire a coltivare i precursori degli spermatozoi.
Lo studio
Una tecnica sperimentale ha consentito di ottenere in provetta le cellule staminali degli spermatozoi, chiamate spermatogoni. Per riuscire a distinguere queste cellule dalle altre presenti nei testicoli, i ricercatori californiani hanno deciso di individuarle utilizzando una sorta di identikit molecolare. Ciò è possibile grazie alla tecnica che ricostruisce la sequenza della molecola di Rna di una singola cellula. Una volta isolati i precursori degli spermatozoi, i ricercatori li hanno fatti sviluppare in provetta per un periodo compreso fra due e quattro settimane, con l’aiuto di una tecnica che controlla il processo di specializzazione delle cellule e la loro sopravvivenza. I ricercatori hanno usato il fattore Akt che regola la moltiplicazione cellulare. In questo modo, sono riusciti a stimolare la coltura in provetta di questi spermatozoi immaturi, per 2-4 settimane.
La tecnica potrebbe permettere di risolvere i problemi che finora hanno reso difficile il traguardo di ottenere le cellule staminali degli spermatozoi. Si tratta di un primo risultato che potrebbe aprire la strada ad una nuova terapia contro l’infertilità maschile.
Cosa sono gli spermatogoni?
Gli spermatogoni, o cellule staminali spermatogoniche (Ssc), sono i precursori degli spermatozoi. “Sono il santo Graal della fertilità umana – ha commentato Carlo Alberto Redi, direttore del Laboratorio di Biologia dello Sviluppo dell’Università di Pavia.
“Tutti i tentativi fatti finora hanno cercato infatti di poter disporre delle staminali spermatogoniali, scontrandosi però con un problema tecnico, e cioè come isolare queste pochissime e rare cellule (spermatogoni) che nel testicolo assicurano una continua moltiplicazione, se il soggetto è fertile”. Gli spermatagoni – continua Redi – “sono cellule rarissime, perchè quando si moltiplicano vanno a cascata, e dunque difficilissime da isolare”.
Quindi, possiamo concludere che è stata scoperta una nuova arma anti-sterilità? “Il loro lavoro e’ interessante perché usa in modo originale una tecnica molto recente, per la prima volta per coltivare gli spermatogoni – conclude Redi – La strada che dalla provetta arriva a farli differenziare in spermatozoi funzionanti alla clinica e’ pero’ ancora molto lunga. Ma, se funziona, e’ una bella apertura”.