Forse un giorno non molto lontano un capello ci dirà se siamo fertili. Questo è ciò che emerge da una ricerca presentata al recente congresso dalla ESHRE, la Società europea di riproduzione umana ed embriologia. La ricerca sembra correlare i livelli di ormone antimulleriano presenti nel capello con quelli nei campioni di sangue.
L’ormone antimulleriano (AMH)
L’ormone antimulleriano (AMH) è un indicatore chiave per valutare come le donne possono rispondere ai trattamenti per la fertilità. La misurazione di questo ormone è diventato un marker importante nella medicina della riproduzione. Infatti, consente di stimare se la risposta della paziente alla stimolazione ormonale sarà normale, scarsa (pochi ovociti) o abbondante (a rischio di sindrome da iperstimolazione).
Come si misura l’AMH
L’ormone antimullerriano attualmente si misura attraverso un prelievo di sangue. I risultati, perciò, sono riferibili al momento in cui viene effettuato l’esame. L’analisi del capello effettuata nello studio presentato al congresso annuale dell’ERSHE, invece, risulta essere meno invasiva e in grado di rappresentare i livelli dell’ormone in modo “più appropriato”, come sostiene il Dottor Sarthak Sawarkar che ha presentato lo studio. Infatti, gli ormoni accumulati nei capelli sono rintracciabili per molte settimane, mentre i livelli di ormoni nel sangue possono cambiare nel corso di alcune ore. Un altro vantaggio del test sul capello è la minore invasività rispetto al prelievo di sangue.
Lo studio presentato all’ESHRE
Lo studio, che è tuttora in corso, al momento include i risultati di 152 pazienti. I capelli e il sangue di queste donne sono stati regolarmente raccolti durante le visite mediche. Contemporaneamente, alle pazienti sono stati contati – attraverso una tecnica a ultrasuoni, i follicoli in via di sviluppo, come ulteriore misura della riserva ovarica.
I ricercatori hanno rilevato livelli di AMH “biologicamente rilevanti” nei campioni di capello, con valori in diminuzione all’aumentare dell’età delle pazienti. “I capelli” – spiegano i ricercatori – “possono accumulare biomarcatori per settimane. Il sangue, invece, è una matrice acuta che rappresenta livelli ormonali momentanei. Mentre i livelli ormonali possono variare rapidamente nel sangue, in risposta a stimoli, quelli presenti nei capelli sono il risultato di accumuli nel corso di settimane. Una misurazione che utilizzi un campione di capelli può rappresentare meglio il livello ormonale medio”.
Fonte: ESHRE – European Society of Human Reproduction and Embriology
Esistono indagini diagnostico-clinico-genetiche che possano quantificare la probabilità di successo?
Quantificare la probabilità di successo di una PMA non è semplice ma uno strumento sicuramente utile può essere rappresentato dalle indagini diagnostico-clinico-genetiche.
L’elemento principale nel determinare la probabilità di gravidanza dopo PMA è comunque rappresentato dall’età della paziente. Alcune indagini, però, permettono di determinare dei parametri, mediante indagini diagnostico-clinico-genetiche, che meglio inquadrano le probabilità di successo.
Il primo è la valutazione della riserva ovarica, cioè della potenzialità riproduttiva della paziente. Questo può avvenire attraverso la determinazione di due ormoni:
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AMH (ormone antimuelleriano)
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FSH (ormone follicolo stimolante)
ma anche mediante un’ecografia transvaginale, che permette di calcolare il volume delle ovaie e di stimare i follicoli antrali presenti in ciascun ovaio.
Va inoltre ricordata la necessità di verificare l’assenza di una situazione trombofilica. Essa aumenterebbe il rischio di patologia abortiva, determinando il fattore V di Leiden, l’enzima MTHFR (metilen-tetra-idro-folatoreduttasi) e l’omocisteina.
Quanto alle altre indagini diagnostico-clinico-genetiche, il riferimento va alla PGS (diagnosi preimpianto delle aneuploidie cromosomiche). Essa valuta lo stato di salute degli embrioni pronti per il trasferimento in utero, accertando l’eventuale presenza di anomalie cromosomiche, correlate sia all’aumento di abortività spontanea, sia allo sviluppo di un feto non sano.
Dott. Maurizio Cignitti
L’attività clinica della fecondazione in vitro è largamente basata sulla capacità dei marcatori della valutazione della riserva ovarica di poter predire la risposta alla stimolazione ovarica. Il primo marker di valutazione della riserva ovarica proposto in letteratura è stato il dosaggio dell’ FSH (ormone follicolo stimolante) in fase follicolare precoce ( 2° 3° giorno del ciclo).
La concentrazione serica normale si pone fino a 8-9 mUI/ml. Una concentrazione di 12-13 mUI/ml è predittiva di una scarsa risposta ovarica alla stimolazione farmacologica in termini di scarso numero di ovociti ma di buona qualità. Quando superiamo valori basali di FSH di 18-20 mUI/ml entriamo nel quadro di insufficienza ovarica con quasi sicuro fallimento della risposta ovarica alla terapia farmacologica.
Attualmente il marker biochimico più affidabile per la valutazione della riserva ovarica è rappresentato dall’ormone antiimulleriano (AMH). Tale ormone è una glicoproteina prodotta dalle cellule della granulosa dei follicoli pre antrali primari e secondari e dai piccoli follicoli antrali ( 2-6 mm di diametro) in modo indipendente dall’FSH. Ciò fa sì che la sua determinazione possa essere eseguita in qualsiasi momento del ciclo. I cut-off riportati in letteratura variano tra 0.4 e 1.2 ng/ml al di sotto dei quali la poor-response (bassa risposta) è predetta con performance più che accettabile. Per valori più bassi (<0.2 ng /ml è invece verosimile pensare ad una assente risposta ovarica all’FSH con cancellazione del ciclo. Valori invece di 2.5-3 ng /ml permettono di predire la paziente con iper risposta con buona sensibilità e specificità.
Si è inoltre indicata una significativa correlazione tra AMH serico e qualità sia ovocitaria che embrionaria suggerendo la possibilità di considerare l’AMH anche un marker di valutazione della riserva ovarica qualitativo, su tale punto però non c’è ancora univocità di giudizi.
La risposta ovarica alla stimolazione controllata nei protocolli di PMA può essere valutato anche con l’ausilio della ecografia attraverso la conta dei follicoli antrali. Tale parametro è appunto dato dalla somma dei follicoli compresi tra 2 e 10 mm di diametro visibili mediante un esame ecografico transvaginale condotto al 3°-5° giorno del ciclo. La conta è strettamente correlata alla tipologia delle ovaie, in quanto si possono distinguere ovaie oligofollicolari (presenza di meno di 6 follicoli) la cui risposta alla stimolazione potrebbe essere scarsa; ovaie normofollicolari per cui si aspetta una risposta con buon numero di follicoli, ovaie multifollicolari (oltre 15 follicoli) che tendono ad ottenere un numero medio alto di follicoli ed ovaie micropolicistiche per cui si attende una eccessiva risposta alla stimolazione con produzione di un numero elevato di follicoli e conseguente rischio di iperstimolazione.
Dott. Maurizio Cignitti