Nonostante la prima gravidanza ottenuta mediante il ricorso a tecniche di fecondazione in vitro sia stata eseguita prelevando la cellula uovo da un ciclo ovulatorio spontaneo, allora fu subito chiaro che uno dei punti chiave del successo della tecnica sarebbe stato legato all’elaborazione di adeguati protocolli di stimolazione ormonale necessari per ottenere un numero maggiore di ovociti maturi.
Pochi anni dopo, infatti, fu confermata l’efficacia delle gonadotropine (ormone follicolo stimolante FSH e ormone luteinizzante LH) per laProcreazione Medicalmente Assistita. Tali ormoni, inducendo un’ovulazione multipla, ovvero la maturazione di più ovociti, consentivano il trasferimento di un maggior numero di embrioni aumentando in tal modo le probabilità di successo della tecnica.
La prima gravidanza ottenuta in un ciclo “superstimolato” risale al 1980 e, da allora, l’induzione della crescita follicolare multipla è divenuta una tappa fondamentale dei cicli di procreazione medicalmente assistita.
Le dosi di gonadotropine per la Procreazione Medicalmente Assistita variano in base alla paziente
Dal 1980 ai nostri giorni molte cose sono cambiate in merito a tutto ciò che ruota intorno alla PMA. Ci riferiamo in questo senso sia alla purezza delle preparazioni farmacologiche, con relativo aumento dose/efficacia, sia all’elaborazione di protocolli di stimolazione ovarica “personalizzati” sulla base di specifici parametri.
Il primo fattore da prendere in considerazione è l’età della paziente. È noto, infatti, che dopo i 38 anni la donna abbia un calo della sua “performance riproduttiva” legato a una diminuzione fisiologica della sua riserva ovarica. In questi casi è importante sottolineare che, oltre a una ridotta risposta, intesa come numero di ovociti recuperabili dopo la stimolazione ormonale, abbiamo anche una ridotta qualità ovocitaria.
Ragionando in termini numerici, proprio per rafforzare il concetto, possiamo affermare che se una donna di 30 anni ha soltanto 1/3 del suo patrimonio ovocitario costituito da cellule uovo non idonee alla fecondazione, in una donna di 40 anni il numero di ovociti “compromessi” è almeno del 50%.
In forza di queste premesse le donne di età biologicamente avanzata sono, in linea di massima, sottoposte a protocolli di stimolazione ovarica con dosi maggiori di gonadotropine per la procreazione medicalmente assistita.
Vanno presi in considerazione anche i marcatori della riserva ovarica
L’età non è però il solo fattore che il ginecologo valuterà; esistono i cosiddetti “markers” della riserva ovarica, come il dosaggio dell’FSH al terzo giorno del ciclo della paziente unitamente alla conta ecografica dei follicoli antrali (quelli che risentono della stimolazione con gonadotropine) e il dosaggio dell’ormone antimulleriano (una sorta di marcatore dell’età ovarica), che può invece essere eseguito in qualunque momento del ciclo ovulatorio.
Il ginecologo mette insieme questi dati come le tessere di un puzzle al fine di elaborare il protocollo di stimolazione più adeguato, ovvero le giuste dosi di gonadotropine per la Procreazione Medicalmente Assistita da somministrare alla paziente.
Sulla base di tali criteri predittivi le pazienti vengono classificate come Normo-responder, Poor-responder e Hyper-responder.
La conoscenza della riserva ovarica, dunque, è uno strumento che consente di “personalizzare” il protocollo di stimolazione per le pazienti che accedono a un percorso di PMA.
Dott. Placido Borzì
Cosa succede a livello emotivo? Quale il giusto approccio psicologico per supportare la coppia?
La reazione emotiva al fallimento della FIVET (anche a più di un tentativo) dipende sostanzialmente dalla capacità della coppia di far fronte alle difficoltà della vita.
In psicologia si utilizza il termine “resilienza”, intesa come quella capacità di una persona o di un gruppo di svilupparsi positivamente, di continuare a progettare il proprio futuro, a dispetto di avvenimenti destabilizzanti. Le risposte degli individui alle malattie sono quindi chiaramente diverse a seconda, sia delle caratteristiche di queste ultime, in relazione al tipo, alla gravità, alla durata della malattia stessa, sia delle caratteristiche personali, intese come stili cognitivi, emotivi e relazionali. Ognuno di noi ha, inoltre, un modo diverso di percepire gli eventi e di ritenere che gli eventi della sua vita siano prodotti dai propri comportamenti o azioni, oppure da cause esterne indipendenti dalla propria volontà.
La reazione emotiva al fallimento della FIVET varia in base ai caratteri: c’è chi si colpevolizza e chi sa prendere la distanza
Ci sono quindi tipologie di persone più propense a colpevolizzarsi, di solito le più difficili da trattare in tali contesti di PMA perché perdono molta energia a cercare le cause disperdendola, invece, rispetto alla ricerca della soluzione. Ce ne sono altre, invece, capaci di saper prendere distanza dalle responsabilità degli eventi e di concentrarsi su possibili soluzioni alternative. Pensare la propria sterilità di coppia secondo un’attribuzione causale esterna, protegge la coppia da sentimenti di vergogna e bisogno di isolamento, rendendola più libera nelle richieste di aiuto e nella ricerca di una nuova ristrutturazione della propria vita.
Solo un’attenta analisi permette allo psicologo di gestire la reazione emotiva al fallimento della FIVET
Un’attenta analisi da parte del clinico sulle modalità personali dell’individuo di affrontare le difficoltà della vita permetterà allo psicologo di prevedere quale sarà la reazione emotiva al fallimento della FIVET e quale interpretazione darà quella persona all’insuccesso del proprio progetto procreativo. In questo modo sarà possibile andare a individuare meglio quali possano essere le alternative al fallimento. Compito dello psicologo è, infatti, saper distinguere le personalità più rigide da quelle più flessibili, lavorare sul senso di colpa e sulle strategie di “coping” (gestione attiva) che permettono alle persone d’individuare soluzioni alle proprie difficoltà, aiutandole a superare, quando necessario, quelle restrizioni mentali inconsapevoli, dettate da vecchie credenze implicite della persona, che non le consentono di poter procedere ed evolversi sulla linea del ciclo vitale. Dott.ssa Angela Petrozzi
Qualunque forma essa prenda, la diagnosi d’infertilità scuote le radici profonde dell’immagine di sé costituendo un’esplosione emotiva che necessita, quasi sempre, di un intervento psicoterapico, volto ad aiutare le persone a superare l’angoscia, il dolore, la deprivazione.
L’intervento psicoterapico ha lo scopo, in primis, di spingere la coppia verso una ridefinizione dell’identità, incanalando e sublimando il bisogno di prendersi cura verso un’immagine più libera, radicandola nelle personali capacità creative, piuttosto che non restringendola alle sole capacità procreative.
L’intervento psicoterapico deve servire anche a scindere atto sessuale e fecondazione
Un’altra funzione che ha l’intervento psicoterapico, all’interno dei percorsi di PMA, consiste nell’aiutare la coppia a recuperare l’intimità sessuale inevitabilmente violata dalle tecnologie. Molto spesso il ricorso alle tecniche di PMA si ripercuote negativamente sulla vita sessuale della coppia, con conseguente calo della libido in entrambi i sessi, fino alla disfunzione erettile nell’uomo e con una riduzione della fertilità nella donna. L’elaborazione della separazione tra atto sessuale e fecondazione è un punto cruciale dell’intervento psicoterapico che può condurre ad accettare una declinazione della sessualità fondata sul senso di appartenenza affettiva e a facilitare il superamento del vissuto mortifero connesso a una generatività desessualizzata.
Anche dopo la nascita del figlio l’intervento psicoterapico serve a gestire sentimenti complessi
Inoltre, il grado di elaborazione da parte degli adulti dei vissuti angosciosi connessi alla PMA, induce a ritenere altamente opportuno l’intervento psicoterapico specifico per le coppie anche successivamente alla nascita del figlio così tanto atteso, sia perché la realizzazione del desiderio costringe i genitori a confrontarsi con quel groviglio di sentimenti complessi che l’insuccesso riproduttivo aveva accantonato, sia perché i bambini voluti caparbiamente sono esposti più degli altri al rischio di rimanere soffocati in un rapporto esclusivo con i genitori, in particolare con la madre, privati della possibilità di accedere ad altri investimenti relazionali.
Dott.ssa Angela Petrozzi
Che tipo di supporto psicologico può essere indicato dopo la nascita di un bambino nato grazie a una delle tecniche di procreazione medicalmente assistita? Come spiegare al figlio la sua storia?
La coppia che riesce con successo ad avere un figlio grazie all’aiuto delle tecniche di PMA difficilmente si pone il quesito su cosa dire al proprio figlio rispetto alla storia procreativa. Tuttavia capita che alcune coppie chiedano aiuto a uno psicologo per capire cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA rispetto alla sua origine. Il problema sotteso a tale quesito è rappresentato dal segreto, non dal suo contenuto. Come ricorda Winnicott: “I bambini non chiedono che venga loro risparmiata la verità, qualunque essa sia, ma che gli venga consegnata con tatto e onestà”.
Cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA? Solo la verità espressa con delicatezza e modi idonei alla sua età
“Mamma e papà ti hanno desiderato talmente tanto che, visto che tardavi ad arrivare, hanno chiesto aiuto a un dottore perché aiutasse i due semini, della mamma e del papà, a incontrarsi e a restare insieme, perché tu potessi crescere nella pancia della mamma per poi nascere e farti abbracciare anche dal papà”. Si tratta di una storia del tutto naturale, che non si discosta tanto dal suo iter fisiologico e del tutto semplice ed esaustiva da raccontare a un bambino.
Per molte coppie cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA nasconde quesiti più complessi
Tuttavia, capita che alcune coppie che hanno avuto un figlio grazie ad aiuti esterni, si pongono alcuni quesiti rispetto a cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA: “Cosa diremo a nostro figlio?”. Una domanda del genere potrebbe, tuttavia, nascondere questioni diverse, più personali, relative alla storia della coppia stessa. Dietro a ogni singola storia dell’individuo c’è un “mandato” generazionale inconsapevole, ossia delle aspettative di solito trasmesse dalla propria famiglia di origine sul ruolo che quell’individuo avrà nella storia familiare. Se si instaura un “gap” tra le aspettative implicite degli altri familiari e quello che l’individuo riesce a realizzare, si insinua nella persona una dissonanza emotiva che non le consente di godere appieno di quello che invece è stata capace di realizzare. Compito del clinico è interessarsi con rispetto ai quesiti che pongono le persone e saperle guidare a ritrovarsi all’interno di un percorso per alcuni versi divergente rispetto a quello atteso.
Situazione più complessa è spiegare al proprio figlio che è nato grazie all’eterologa
Questione del tutto diversa è quella che pone una coppia che ha fatto ricorso a una fecondazione eterologa. Qui il quesito su “cosa dire al figlio nato da tecniche di PMA” o meglio da eterologa, si affaccia abbastanza precocemente nella coppia, fin dalle prime fasi decisive rispetto al percorso da intraprendere. Anche in questo caso non ci sono risposte identiche per tutti, la risposta va costruita insieme alla singola coppia rispettando quella che è la storia familiare che la coppia si porta dietro. Il clinico deve intercettare il significato che rappresenterebbe per quella coppia avere un figlio con l’aiuto di un gamete esterno alla coppia stessa.
Occhio a “risposte facili” trovate sul web: ognuno ha la sua storia e necessita di risposte diverse
Spesso il web spinge le persone a ricercare risposte immediate a ogni singolo problema. Nell’ambito delle questioni psicologiche, soprattutto, bisogna diffidare da risposte predefinite. “Quello che è meglio per me potrebbe non essere buono per te”. Il ruolo dello psicologo è quello di saper ascoltare con orecchio esperto cosa gli sta chiedendo veramente quella coppia ed aiutarla a costruire insieme una risposta, la più personale possibile.
Dott.ssa Angela Petrozzi
Esistono numerosi protocolli di stimolazione ovarica ma, per la fecondazione in vitro, i più utilizzati sono i protocolli di stimolazione lungo e corto. In entrambi i casi i farmaci impiegati sono gli stessi, mentre le differenze sostanziali riguardano il momento di somministrazione e le candidate all’accesso.
Vediamo allora di vedere, un po’ più nel dettaglio, quali sono le differenze sostanziali tra i protocolli di stimolazione lungo e corto.
Come funziona il protocollo di stimolazione lungo
Nel protocollo di stimolazione lungo la paziente inizia ad assumere gli ormoni il secondo giorno del ciclo. La funzione svolta da questi farmaci è di sopprimere gli ormoni FSH e LH in modo da bloccare l’ovulazione e la produzione di estradiolo. La soppressione controllata delle ovaie con il protocollo FIVETdi stimolazione lungo prevede che i follicoli che si origineranno non saranno di dimensioni superiori ai 15 mm e consente allo specialista di controllare completamente la stimolazione ovarica, al fine di evitare una luteinizzazione precoce, ovvero un picco di LH intempestivamente determinato come risposta a concentrazioni crescenti di estrogeni, cioè quando il follicolo è ancora immaturo.
La stimolazione ovarica si effettua con antagonisti dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) e di norma la crescita follicolare è stabile. Una volta verificato che i follicoli hanno le giuste dimensioni (inferiori a 17 mm) e che il livello di estradiolo è buono (150-200 pg/ml), si somministra hCG (human chorionic ormone) o gonadotropina corionica per ottenere la maturazione ovarica finale. Queste iniezioni di hCG vengono somministrate, infatti, 32-36 ore prima del prelievo degli ovociti.
Come funziona il protocollo di stimolazione corto
Il protocollo di stimolazione corto ha durata di circa 4 settimane e corrisponde al ciclo naturale. Tende a essere consigliato alle donne “più avanti con l’età” (in genere dai 37 anni in su) soprattutto se hanno mostrato una bassa risposta delle ovaie nei precedenti cicli.
Tra i protocolli di stimolazione lungo e corto, la differenza è che in quest’ultimo la stimolazione inizia subito il primo giorno del ciclo per sfruttare la liberazione massiva di gonadotropine endogene che si verifica con la somministrazione di GNRHa, prima che s’instauri il blocco ipofisario. Se tutti i controlli e le analisi del sangue vanno bene si procede subito con la somministrazione delle GnRH antagoniste.
I vantaggi sono che, a differenza del protocollo lungo, la quantità introdotta di ormoni è molto più bassa. Se la donna non risponde a questo tipo di stimolazione è chiaramente evidente fin da subito che non può produrre ovuli per conto proprio e che, se desidera un figlio, l’unica opzione praticabile è un programma di FIVET che preveda l’ovodonazione.
Dott. Placido Borzì
La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) colpisce il 5-10% delle donne in età riproduttiva ed è caratterizzata da oligomenorrea (alterazione del ciclo mestruale che arriva dopo 32-35 giorni), eccesso di ormoni androgeni (ormoni presenti anche nella donna ma normalmente in numero nettamente inferiore rispetto agli uomini), insulino-resistenza e alterazioni dell’aspetto morfologico dell’ovaio (follicoli molto piccoli sparsi sulla superficie ma praticamente assenti al centro dell’ovaio).
La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è la prima causa d’infertilità femminile
La sindrome dell’ovaio policistico è la causa più comune d’infertilità femminile. A oggi l’origine precisa non è ancora stata individuata, ma si pensa che dipenda da una multifattorialità.
Proprio perché la causa della PCOS non è ancora stata definita, non esiste un trattamento specifico e risolutivo della stessa, anche se oggi si sperimentano, con un buon grado di efficacia, diversi approcci terapeutici.
La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) e l’inositolo
Per esempio i cosiddetti “composti insulino-sensibilizzanti” (ricordiamoci, infatti, che tale sindrome si manifesta anche con un’insulino-resistenza) sono stati studiati come efficace trattamento della sindrome dell’ovaio policistico. Vediamo di conoscerli più da vicino. Innanzitutto l’inositolo, una vitamina del complesso B che, somministrata nelle pazienti affette da sindrome dell’ovaio policistico, ha dimostrato di migliorare non solo i parametri metabolici e ormonali, ma anche la funzione ovarica e la risposta ai cicli di fecondazione assistita (PMA).
In più, evidenze scientifiche hanno mostrato che l’inositolo è anche in grado di migliorare la qualità degli embrioni e la follicologenesi (maturazione dei follicoli), aumentando il numero di ovociti maturi dopo stimolazione ovarica in donne con PCOS.
Gli inositoli ei loro derivati sono polialcoli che appartengono alla famiglia della vitamina B. Si tratta di molecole chimicamente stabili che possono essere ingerite con la dieta. L’inositolo è contenuto nella frutta, in particolare nei meloni e nelle arance, nei prodotti ad alto contenuto di crusca e di cereali, nelle noci e nei fagioli. Frutta e verdura fresca hanno un più alto contenuto di inositolo rispetto ai congelati, ai cibi salati o ai prodotti in scatola.
C’è da dire che gli inositoli non sono considerati nutrienti essenziali poiché possono essere prodotti in modo endogeno (dall’organismo) dal glucosio.
Il trattamento della PCOS con agenti insulino-sensibilizzanti
Nella sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) la nota associazione tra iperinsulinemia (eccesso di insulina nel sangue), iperandrogenismo (eccessiva presenza di ormoni androgeni e quindi tratti di mascolinità evidenziati dall’irsutismo, ovvero peli in eccesso) e disfunzione ovulatoria ha costituito la base per il trattamento con agenti insulino-sensibilizzanti, come il mio-inositolo, la metformina (farmaco che normalmente si usa per curare il diabete di tipo 2), e i tiazolidinedioni (farmaci che aumentano la sensibilità all’insulina nei tessuti), che si sono dimostrati efficaci nel migliorare la resistenza all’insulina e le funzioni ovariche in donne affette da sindrome dell’ovaio policistico.
Myo-inositolo (MYO) e D-chiro-inositolo (DCI) sono derivati dell’inositolo: il primo è la forma maggiormente presente a livello cellulare, comprendente fino al 99% della quantità inositolo totale. Il Myo-inositolo viene convertito in DCI da un enzima (epimerasi) insulino-dipendente che influenza fortemente il rapporto intracellulare tra queste due molecole nelle cellule adipose, epatiche e muscolari.
Studi in materia evidenziano che le donne colpite da sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) hanno una cattiva regolazione del metabolismo dell’inositolo. Ciò significa che esiste un collegamento tra carenza d’inositolo e resistenza all’insulina (IR) nella PCOS.
È ampiamente noto che la resistenza all’insulina giochi un ruolo importante nel determinare la sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) in un gran numero di donne ed è una caratteristica comune alle donne con PCOS sia in sovrappeso sia normopeso, ovvero indipendentemente dal loro indice di massa corporea (BMI).
I benefici di basse dosi di DCI: meno resistenza all’insulina e miglior frequenza ovulatoria
L’iperinsulinemia (eccesso d’insulina nel sangue) può alterare il rapporto tra MYO e DCI e, paradossalmente, aumentare la concentrazione DCI all’interno dell’ovaio con conseguenze dannose per la funzione ovarica. Ciò spiegherebbe perché non si registrino benefici clinici nelle donne con sindrome dell’ovaio policistico.
È importante, invece, quando si somministrano inositoli che sia mantenuta una corretta proporzione tra MYO e DCI. Si è infatti osservato che il D-chiro-inositolo (DCI) a basso dosaggio diminuisce la resistenza all’insulina e il contenuto degli ormoni androgeni e, contemporaneamente, migliora la frequenza ovulatoria nelle donne con PCOS.
Integrazione di Myo-inositolo: favorisce produzione di ovociti e stimolazione ovarica per PMA
Inoltre, diversi studi dimostrano che la supplementazione di Myo-inositolo procura benefici in donne affette da sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) in termini di produzione di ovociti ed embrioni di migliore qualità, oltre a migliorare la regolarità mestruale, l’insulino-resistenza, e la qualità dell’ovulazione.
È poi dimostrato che per le donne che accedono a trattamenti di procreazione medicalmente assistita (PMA), la somministrazione di MYO prima della stimolazione ormonale aumenta la qualità di ovociti ed embrioni e riduce la dose di FSH (ormone follicolo stimolante) e i giorni necessari per la stimolazione.
Dott. Antonio Castelli
I fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA, se valutati in anticipo, possono aiutare i medici a reinstradare le pazienti nell’iter terapeutico.
Dopo aver descritto i motivi e le principali situazioni che portano una coppia al drop-out della PMA, ovvero a decidere di abbandonare il percorso diagnostico-terapeutico per l’infertilità, è opportuno, infatti, esaminare i cosiddetti fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA.
Valutare per tempo i suddetti fattori, dunque, può essere un buon aiuto per gli specialisti a individuare le coppie più propense all’abbandono e a intervenire nel modo giusto per far capire l’importanza dell’aderenza all’iter terapeutico.
Tre le variabili ascrivibili tra i fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA
I fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA sono legati prevalentemente a tre variabili. Analizziamoli nel dettaglio.
Storia dell’infertilità: abbandonano più facilmente le coppie che:
hanno già avuto un figlio;
in cui la causa dell’infertilità è maschile;
le donne con endometriosi e con problemi cronici di ovulazione.
Tipo di trattamento: abbandonano più facilmente le pazienti:
sottoposte a regimi terapeutici molto aggressivi;
quelle in cui è stato recuperato un basso numero di ovociti, in cui l’embryo transfer non è stato effettuato per mancata fertilizzazione degli ovuli;
chi ha avuto una gravidanza esitata in aborto;
che hanno aspettato un tempo troppo lungo tra un trattamento e un altro.
Tipologia di pazienti: correlati negativamente al completamento dei trattamenti sono:
età avanzata;
fattori psico-sociali;
difficoltà economiche;
problemi di relazione di coppia;
basso livello sociale;
fattori personali quali idiosincrasia, motivi etici, ansia e depressione, logistica, paura per la propria salute, altre scelte come l’adozione.
Riferimenti bibliografici
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2. Gameiro et al, Human Reproduction Update 2012, Nov, 18(6): 652-69
3. M. Brandes et al, Human Reproduction 2009 vol 24, N° 12: 3127-35
4. S. Gameiro et al, Human Reproduction Update, 2012, vol 0, pp 1-12
5. Domar et al, Human Reproduction 2012, n°4, pp 1073-79
Dott.ssa Luciana De Lauretis
L’infertilità può essere causa di depressione: mina il “progetto bambino” della coppia, isolandola
Diversi sono i vissuti psicologici che si sviluppano in seguito alla diagnosi d’infertilità o ancora peggio di sterilità. Indubbiamente l’infertilità può essere causa di depressione perché il mancato raggiungimento dello scopo “diventare genitore” nella maggior parte dei casi provoca veri e propri stati depressivi che coincidono con il fallimento e la perdita di un sogno, sentimenti di ansia, di colpa, isolamento, perdita di interessi, difficoltà di concentrazione, pensieri negativi, difficoltà del sonno e cambiamenti importanti nelle abitudini alimentari e sessuali.
Un segreto che isola socialmente e mina la coppia: l’infertilità può essere causa di depressione
Durante l’ovulazione della donna, la coppia vive l’ansia di un rapporto sessuale programmato finalizzato a procreare, all’arrivo della mestruazione arriva lo sconforto determinato dall’ennesimo fallimento. Le coppie si sentono diverse, non riescono in una cosa del tutto naturale, sviluppano sentimenti di vergogna e di colpa. Dunque l’infertilità può essere causa di depressione e diventare un segreto che li appesantisce e li isola dalle relazioni sociali. Si riscontrano tentativi di evitamento delle coppie con bambini e si osserva la preferenza per coppie simili. Spesso tali vissuti ricadono anche sull’equilibrio della coppia stessa. L’isolamento non si osserva soltanto in relazione agli “altri”, intesi quelli al di fuori della coppia, ma anche nei confronti del partner stesso, che talvolta viene tagliato “fuori”. Sempre più spesso la coppia si chiude rispetto al compagno/a, lo esclude dalle proprie visite specialistiche vissute come un peso. La coppia è messa a dura prova di resistenza. Tutto quello che la coppia ha costruito finora, sembra scomparire, non esistere più. La coppia deve rielaborare una perdita, quella di essere genitore.
L’infertilità può essere causa di depressione perché distrugge “il progetto bambino” che abita in noi da sempre
Prima ancora di nascere e di essere concepito, il bambino della coppia esiste nel loro immaginario. Durante l’infanzia, i bambini fantasticano di avere a loro volta un bambino nella pancia, il che corrisponde al desiderio di essere uguali ai loro genitori. L’infertilità può essere causa di depressione perché quando questo progetto non si realizza in età adulta è necessario elaborare un lutto come la perdita di un progetto importante, che affonda le sue radici nell’infanzia. A questo punto la coppia ha bisogno di un intervento specialistico che l’aiuti a ristrutturare la percezione di sé e di coppia.
Se la coppia sceglie la PMA occorrerà un supporto psicologico sin dall’inizio del percorso
Il fatto che l’infertilità può essere causa di depressione rende fondamentale necessità di attivare, per le coppie che accedono a un percorso PMA (procreazione medicalmente assistita), spazi di consulenza psicologica rivolti alla persona e alla coppia stessa. Questo significa garantire una consulenza alle persone prima di iniziare le singole procedure diagnostiche. Le coppie non devono soltanto essere informate, ma devono poter avere la possibilità di maturare un’accettazione consapevole della tecnica proposta.
Nasce quindi la necessità per lo psicologo di affiancare il medico fin dai primi colloqui. Poter osservare come le coppie rispondono fin da subito al carico emotivo che la PMA comporta significa, per lo psicologo, identificare precocemente le coppie più a rischio, quelle che necessitano di un maggiore e tempestivo intervento psicologico. In questo senso l’attività di consulenza non ha esclusivamente finalità terapeutica, ma anche carattere decisionale per le successive tappe da intraprendere. Lo psicologo comincerà a interessarsi alle credenze di quella coppia, cercherà di comprendere quale stile di risposta (coping) utilizza quella coppia solitamente nelle situazioni ansiogene e stressanti, cercherà di mettere in relazione i loro pensieri con le loro emozioni, tentando di anticipare come tutti questi vissuti potrebbero ricadere sulle relazioni. Lo psicologo proverà a prendere in considerazione tutti questi aspetti della persona con lo scopo principale di tenere la coppia in equilibrio, in una fase estremamente faticosa e turbolenta.
Dott.ssa Angela Petrozzi
Intraprendere la fecondazione eterologa: luci e ombre di un “salvagente” delle gravidanze fino a poco fa ritenute impossibili
Intraprendere la fecondazione eterologa rappresenta una possibilità per la coppia con diagnosi di sterilità. La legge 40/2004 in materia di Procreazione medicalmente assistita (Pma) prevedeva, fino a due anni fa, l’utilizzo esclusivo di tecniche di tipo omologo (quelle cioè che utilizzano seme e ovociti della stessa coppia).
9 aprile 2014, una data storica: via libera della Consulta a intraprendere la fecondazione eterologa in Italia
Il 9 aprile 2014 la Corte Costituzionale ha dato il via libera ad intraprendere la fecondazione eterologa in Italia, attraverso una modifica (sentenza 162) delle linee guida previste in materia di Pma: quando uno dei due partner è sterile, è possibile arrivare a una gravidanza attraverso l’utilizzo di un gamete, un ovulo o uno spermatozoo, di una terza persona, cioè il donatore.
L’accesso alla fecondazione eterologa è stato inserito dalle varie regioni nei Lea (Livelli essenziali di assistenza) e prevede per la coppia il pagamento di un ticket. Il permesso legislativo di accedere alla fecondazione eterologa apre un nuovo scenario emotivo per le coppie. Se fino a qualche anno fa, per una coppia impossibilita a procreare, la legge prevedeva come unico diritto alla genitorialità l’adozione e/o l’affidamento (Legge 149/2001), questo ampliamento di orizzonti sconvolge, in un certo senso, la psicologia della coppia sterile.
I dubbi sulla difficile scelta d’intraprendere la fecondazione eterologa
A questo punto dobbiamo chiederci: quali fasi emotive precedono la scelta del percorso da intraprendere? Che differenze ci sono sul piano emotivo tra adottare un bambino oppure procreare un figlio decidendo di intraprendere la fecondazione eterologa? Quali vissuti si generano nella coppia? Come viene vissuta la scelta di intraprendere la fecondazione eterologa da una coppia con problemi oncologici? Cercherò di rispondere ai vari interrogativi, partendo dal concetto di sterilità, pur nella consapevolezza che, in Italia, esistono poche ricerche scientifiche sull’argomento “eterologa”, quindi ancora pochissimi risultati utili a orientare le risposte su un’evidenza scientifica.
Distinguiamo tra diagnosi di sterilità e d’infertilità: quali conseguenze psicologiche
La diagnosi di sterilità differisce innanzitutto profondamente da quella d’infertilità.
Una coppia infertile è una coppia che non è stata in grado di concepire dopo 12/18 mesi di rapporti sessuali intenzionalmente fecondi (2-3giorni/settimana) le cui cause sono ancora da individuare. La coppia sterile è una coppia nella quale esistono delle cause accertate che riguardano uno o entrambi i coniugi, per cui esiste una condizione fisica permanente che non rende possibile la procreazione. Esiste una diagnosi d’incapacità biologica da parte della coppia di contribuire al concepimento. In Italia sono circa il 20% le coppie che arrivano a un centro di PMA dove viene fatta una diagnosi di reale sterilità. Alla diagnosi segue un periodo turbolento per la coppia in cui si alternano solitamente tre fasi: accettare di non potere, accettare di dover chiedere aiuto e “ristrutturare” la propria identità personale e di coppia.
La dura fase di accettazione è il primo passo per chiedere aiuto e ridefinire la propria identità
La prima fase ha a che fare con l’elaborazione della perdita del progetto di genitorialità. La coppia vive la frustrazione di non essere capace di progredire nel proprio ciclo vitale. La coppia sterile perde improvvisamente la prospettiva di poter evolversi da coppia coniugale a coppia genitoriale e vede svanire un progetto che era solitamente “il progetto” della propria vita: quello di avere un figlio. Come succede quando viviamo un lutto importante, la reazione emotiva rispetto a una perdita è caratterizzata da varie fasi che passano dal senso d’incredulità alla disperazione, dalla rabbia alla rassegnazione e quindi alla consapevolezza che le cose sono immutabili ed è necessario accettarle per quello che sono. Accettare di non potere è un passo necessario per poter chiedere aiuto. La coppia ha bisogno che qualcuno la guidi nella fase di ristrutturazione della propria identità.
Riuscire a superare il vissuto di fallimento e il senso d’inferiorità rispetto all’altro (partner) o agli altri (coppie fertili), sentendosi ancora uomo o donna nonostante la propria sterilità, è fondamentale per poter rinnovare il proprio progetto iniziale verso nuove prospettive. A questo punto la coppia sterile può decidere di adottare, d’intraprendere la fecondazione eterologa oppure di rimanere soltanto coppia per sempre.
Intraprendere la fecondazione eterologa offre alla coppia l’opportunità di vivere la gravidanza
Decidersi a intraprendere la fecondazione eterologa, permette alla coppia di riparare la diagnosi di sterilità attraverso una procreazione non solo affettiva, come avviene nell’adozione, ma anche biologica.
L’eterologa permette, infatti, alla coppia di viversi l’esperienza della gravidanza, di seguire la crescita del proprio bambino fin dai primi momenti della vita prenatale, a partire dal risultato, tanto atteso del test di gravidanza, fino al suo monitoraggio attraverso le visite ecografiche. Tuttavia, il donatore o la donatrice alterano la normalità del processo di procreazione a tal punto da generare talvolta, nell’uomo e nella donna “riceventi”, sentimenti ambivalenti molto simili a quelli vissuti dalla coppia adottiva. Il sentimento di gratitudine si alterna a fantasie che percepiscono il donatore come una figura potente, giovane e fertile. Ne consegue, per il ricevente, un senso d’inferiorità e un vissuto di esclusione. L’uomo e la donna possono vivere tali emozioni in modo differente a seconda del ruolo che rivestono in tale processo.
La donna, anche quando si vive come la causa della sterilità di coppia, attraverso la scelta d’intraprendere la fecondazione eterologa ha la possibilità di superare il vissuto del fallimento procreativo, identificandosi con un corpo capace di ospitare, contenere e alimentare. La funzione materna, pur castrata della sua capacità generativa iniziale, si riinserisce immediatamente nel percorso procreativo, attraverso la funzione contenitiva e nutritiva dell’utero ospitante.
L’ovodonazione per l’uomo può essere vissuta come minaccia alla propria paternità
Nel caso dell’ovodonazione la donna può respingere così l’insidia dell’intruso. Quando è l’uomo ad avere una diagnosi di sterilità, ricorrere a un donatore può rappresentare una minaccia per la propria identità maschile all’interno della coppia. L’esclusione della sessualità genitale o l’intrusione in essa di elementi estranei tende a deresponsabilizzare l’atto creativo, evocando nell’uomo più spesso che nella donna, fantasmi di onnipotenza” (Passarelli C, 2002) e di persecuzione. Un po’ similarmente a quanto avviene per la coppia adottiva, si sviluppano fantasie sul genitore biologico che può essere vissuto come una minaccia alla propria paternità e il partner, poiché genitore biologico, può venire vissuto in vantaggio rispetto al nascituro.
In questi termini, la coppia adottiva vive un vantaggio: entrambi i partner sono estranei alla storia iniziale del bambino, per cui il vissuto di esclusione accomuna e unisce i genitori adottivi, anziché dividerli.
Nei pazienti oncologici intraprendere la fecondazione eterologa è una conquista importante
La situazione è diversa quando a intraprendere la fecondazione eterologa è una coppia con problemi oncologici. La preservazione della fertilità nei pazienti oncologici, attraverso la conservazione degli ovociti, o del liquido seminale, prima di effettuare il trattamento chemioterapico, è una conquista importante della medicina degli ultimi anni. Tuttavia non è sempre una scelta percorribile a causa delle varie difficoltà che la malattia oncologica comporta. Per esempio, sebbene nell’uomo la preservazione dei gameti, non implichi un ritardo nell’inizio del trattamento antitumorale, alcuni pazienti non hanno il tempo per eseguire raccolte plurime, limitando così i campioni di eiaculato disponibili.
Inoltre la crioconservazione riduce la qualità del liquido seminale per cui è possibile che non ci siano spermatozoi utilizzabili dopo scongelamento. Tra le tecniche di crioconservazione per la donna, l’unica che abbia dimostrato risultati riproducibili, oltre alla crioconservazione degli embrioni vietata in Italia dalla legge 40/2004, è la crioconservazione di ovociti maturi, tecnica che richiede dei tempi non sempre disponibili. Intraprendere la fecondazione eterologa, quindi tramite donatore esterno alla coppia, rappresenta, spesso, l’unica possibilità anche per le coppie con una storia di malattia oncologica.
Tuttavia, i vissuti psicologici, che si sviluppano in questi casi, presentano delle differenze rispetto a quelli che vive normalmente una coppia sterile senza una causa oncologica. Se la coppia sterile vive il sentimento della “vergogna” nel percepirsi ingiustamente diversa rispetto agli altri e sviluppando comportamenti d’isolamento rispetto al mondo degli amici e talvolta anche dei familiari, la coppia con storia oncologica si ritiene fortunata per essere riuscita a vincere la malattia e vive la mancanza del gamete, non come una vergogna legata al Sé, al senso d’identità: “sono una persona sterile”, ma come un evento fortuito, che non dipende dal Sé, ma da un evento esterno di cui si è vittima.
La coppia con storia oncologica vive il donatore come una figura salvifica
Nel 1954 Julian B. Rotter, uno psicologo statunitense, descrisse il costrutto “attribuzione causale interna/esterna” (Locus of control) per indicare la modalità con cui un individuo ritiene che gli eventi della sua vita siano prodotti da suoi comportamenti o azioni, oppure da cause esterne indipendenti dalla sua volontà. Il senso di attribuzione causale esterna alla propria sterilità protegge la coppia con storia oncologica da sentimenti di vergogna e bisogno di isolamento. La scelta d’intraprendere la fecondazione eterologa, in questi casi, viene affrontato con maggior naturalezza, quasi come una delle tante medicalizzazioni già vissute nei reparti di oncologia. Sono persone che hanno ricevuto trasfusioni di sangue e talvolta veri e propri trapianti. Il donatore, da queste coppie, viene vissuto come una risorsa indispensabile, una figura salvifica e non una minaccia alla propria identità.
La coppia può anche scegliere di rinunciare alla genitorialità valorizzando ciò che ha
La reazione emotiva della coppia alla sterilità dipende sostanzialmente dalla sua capacità di far fronte alle difficoltà. In psicologia si utilizza il termine “resilienza”, intesa come quella capacità di una persona o di un gruppo di svilupparsi positivamente, di continuare a progettare il proprio futuro, a dispetto di avvenimenti destabilizzanti. Le risposte degli individui alle malattie sono chiaramente diverse a seconda, sia delle caratteristiche di queste ultime, in relazione al tipo, alla gravità, alla durata della malattia stessa, che delle caratteristiche personali, intese come stili cognitivi, emotivi e relazionali.
È importante per la coppia poter valutare, come possibili alternative alla procreazione e all’adozione, il non avere figli, approfondendo i propri vissuti di accettazione o di rifiuto in merito alla mancata genitorialità. La coppia può decidere di rinunciare al progetto della procreazione, accettare di non avere figli, restando una coppia per sempre. Per compiere al meglio tale processo, è di grande aiuto cercare di valorizzare quello che uno ha, in termini di amicizie, relazioni, progetti e interessi, piuttosto che su quello che non si ha, riprogettando il proprio futuro attraverso nuove aspettative.