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Per evitare che le pazienti abbandonino il percorso di procreazione medicalmente assistita (PMA),oltre ai fattori predittivi su cui poter intervenire, esistono i cosiddetti fattori correttivi, ovvero quelli su cui si può intervenire per far cambiare idea alle donne e, in generale, alle coppie.
Che cosa si può fare per aiutare le pazienti: quali i fattori correttivi?
I fattori correttivi intesi dalla parte delle pazienti consistono nell’andare a definire al meglio quali siano le realistiche aspettative del trattamento e, soprattutto, focalizzarsi sulle motivazioni genitoriali. Spesso in questi casi si propone un supporto psicologico di vario genere e molte coppie scelgono poi di beneficiarne.
I fattori correttivi che spettano all’équipe medica
Da parte del team medico i fattori correttivi riguardano:
• fornire ogni necessario supporto al fine di rendere il peso delle terapie il meno oneroso possibile;
• assicurarsi che le pazienti ricevano informazioni chiare e che abbiano la possibilità di mettere in luce valori, problemi, dubbi e cattive interpretazioni di tutto quanto concerne il trattamento di procreazione medicalmente assistita;
• prospettare in modo trasparente, ovvero sin dall’inizio del percorso, la possibilità di dover ricorrere a più cicli di trattamento. In questo senso andrà fornito un adeguato supporto decisionale in tutte le varie fasi del percorso diagnostico e terapeutico;
• cercare di personalizzare i trattamenti e di assicurare un riferimento medico per ogni coppia che necessiti ulteriori informazioni o supporti;
• organizzare turni di lavoro che rispettino un turnover non eccessivo;
• fornire un recapito telefonico destinato a comunicazioni urgenti;
• dopo un ciclo concluso negativamente, fornire una consultazione di tipo critico sulle motivazioni del fallimento e su eventuali aggiustamenti terapeutici;
• addestrare lo staff medico, biologico e infermieristico a migliorare le proprie capacità di comunicazione coi pazienti.

Dott.ssa Luciana De Lauretis

Le ragioni di abbandono in PMA, in linea generale, sono principalmente attribuibili a stress psico-fisico, a vari tipi di paure, oltre a scarsa fiducia nel centro e nello staff medico.
Va detto che le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) forniscono elevate probabilità cumulative di gravidanza, ma a dispetto di queste buone possibilità di realizzare il proprio progetto genitoriale, molte coppie, per una propria decisione, scelgono di non seguire il trattamento in maniera continuativa, quindi per ragioni che non sono di ordine medico né relative ai costi dei trattamenti stessi. Anzi, molte volte si tratta di pazienti a buona prognosi e in grado di sostenere il peso economico delle terapie.
Inoltre è importante evidenziare questi dati:
• circa la metà delle coppie infertili non ricorre a trattamenti per l’infertilità;
• un terzo delle coppie abbandona dopo il primo fallimento FIVET/ICSI;
• il 1° ciclo è quello più favorevole sui risultati, ma più tentativi aumentano le probabilità di arrivare alla gravidanza;
• la percentuale di bambini nati da tecniche di PMA è il 22% per ogni ciclo iniziato e può raggiungere il 50% se i pazienti si sottopongono ad un numero ottimale di cicli (3);
• esiste un modello teorico secondo il quale il Centro di PMA registrerebbe circa il doppio di gravidanze se tutte le coppie senza successo fossero disposte a concludere 7 cicli di PMA.

Le principali ragioni di abbandono in PMA? Stress emotivo e fisico (Global Burden of Disease)

Ma quante sono le coppie che abbandonano? Il dato è estremamente disomogeneo. Nell’ambito della letteratura scientifica può variare dal 7 all’80 per cento. In media il numero di abbandono in PMA è compreso tra il 25 e il 60 per cento.
I momenti più critici nell’interruzione si verificano nel 50 per cento dei casi prima che inizi qualunque trattamento e 2/3 dei pazienti abbandona prima di iniziare procedure di 2° livello (FIVET/ICSI).
Le ragioni di abbandono in PMA sono principalmente: lo stress emotivo, la scarsa prognosi, il rifiuto dei trattamenti e problemi di relazione.
In termini generali, le cause dell’abbandono possono essere raggruppate in tre fattori. Vediamoli.
1. fattori legati alla coppia/individuo: si tratta di paure e timori nei riguardi delle procedure, della salute dei futuri bambini, e di aspettative spesso non realistiche;
2. fattori legati al Centro medico: accesso alle cure, tempi di attesa, organizzazione dello staff di lavoro, deficit d’informazione e difficoltà nella comunicazione, mancanza di supporti psicologici;
3. fattori legati al trattamento in sé: complessità delle terapie, numero di iniezioni, difficoltà a inserire i numerosi controlli nel proprio contesto di lavoro, logistica eccetera.
Dott.ssa Luciana De Lauretis

Quando deve avvenire il transfer degli embrioni, in terza o in quinta/sesta giornata dalla fecondazione?

Una volta effettuata la tecnica di fecondazione in vitro più appropriata per la coppia, l’embriologo osserva meticolosamente lo sviluppo degli embrioni che ne derivano. La valutazione della qualità degli embrioni ottenuti viene eseguita quotidianamente così da selezionare il o gli embrioni migliori da trasferire nella cavità uterina della donna. Ad oggi, il transfer viene eseguito per lo più in terza (D3) o in quinta/sesta giornata (D5/D6) dal prelievo ovocitario. In D3 l’embrione ottimale è allo stadio di 6/8 cellule, in D5/D6 si trova ad uno stadio di sviluppo più avanzato, detto blastocisti. Se per una coppia si hanno molti embrioni a disposizione, la coltura in vitro prolungata a blastocisti ha il vantaggio di selezionare in laboratorio gli embrioni più “forti” che riescono a raggiungere tale stadio di maturazione (non tutti gli embrioni ne sono capaci) e quindi trasferirli in utero ed eventualmente congelare i sovrannumerari.

Fisiologicamente, in quinta/sesta giornata l’embrione ha già percorso la tuba dove è avvenuto l’incontro tra spermatozoo e ovulo, e si trova allo stadio di blastocisti all’interno della cavità uterina, dove avverrà l’annidamento. È dunque ragionevole pensare che il risultato migliore, in seguito ad un ciclo di fecondazione assistita, si ottenga in seguito al transfer effettuato in D5/D6, in quanto si cerca di mimare ciò che avviene in natura. In realtà vi sono delle situazioni in cui è preferibile il transfer in D3 e dei casi in cui è preferibile il transfer in D5/D6.

Il transfer in D3 viene privilegiato nel caso in cui la paziente sia giovane (<35 anni) ed al primo ciclo di fecondazione assistita, in quanto la coltura in vitro fino alla quinta/sesta giornata potrebbe non portare allo sviluppo di blastocisti e ciò comporterebbe un annullamento del transfer, con conseguente insoddisfazione della coppia. Risulta inoltre più favorevole il transfer in D3 nel caso in cui vi siano pochi embrioni disponibili per la coppia, percui risulterebbe inutile la selezione a blastocisti.

D’altro canto, il transfer in D5/D6 viene preferito per migliorare la selezione degli embrioni da trasferire alle coppie che hanno vissuto ripetuti fallimenti di cicli di fecondazione in vitro, gravidanze biochimiche o aborti in seguito a IVF, e per le coppie per cui sono disponibili molti embrioni di ottima qualità in D3 percui risulta difficile, se non impossibile, scegliere solo dal punto di vista osservazionale il o gli embrioni migliori da trasferire. Il transfer in D5/D6 è preferibile anche per le donne che hanno ricorso all’ovodonazione in quanto gli embrioni derivano da ovociti di donne giovani e quindi con buone probabilità di dare gravidanza. Consente inoltre di trasferire un unico embrione evitando così il rischio di gravidanze plurime. Infine, quando una coppia decide di sottoporre i suoi embrioni alla diagnosi genetica preimpianto (PGD/PGS), ciascun embrione viene privato di 1 o 2 cellule in D3 per l’indagine genetica. I risultati genetici si ottengono dopo circa 48 ore, quindi si attende lo sviluppo in vitro a blastocisti, e si trasferiscono solamente quelle geneticamente “sane”.

Dott.ssa Stefania Luppi

Resto incinta, che fare degli embrioni sovrannumerari?

 

La coppia che ricorre alle tecniche di fecondazione assistita firma inizialmente un consenso informato in cui decide se vuole ottenere in quel ciclo un numero di embrioni tale da non averne in esubero in seguito al transfer in utero, oppure se vuole venga prodotto un numero maggiore di embrioni in modo da aumentare le probabilità di successo potendo selezionare gli embrioni migliori. Nel secondo caso è chiaro che il biologo insemina un numero di ovociti elevato che genererà degli embrioni in eccesso rispetto a quelli destinati al transfer, gli embrioni sovrannumerari possono essere congelati e utilizzati in cicli successivi per ottenere un’ulteriore gravidanza o perché il primo tentativo è fallito. Gli embrioni in esubero vengono crioconservati e mantenuti in banche di azoto liquido a -196°C. Il transfer da embrioni scongelati risulta molto semplice e per niente invasivo in quanto la donna non viene sottoposta ad alcuna stimolazione ovarica ne ad alcun intervento chirurgico. Tuttavia accade spesso, che, se la coppia ha già ottenuto una o più gravidanze e non desidera averne altre, pur avendo altri embrioni crioconservati a disposizione, decida di non volerli più. Secondo la legge 40 non si può obbligare una donna a trasferire in utero i suoi embrioni congelati, quindi restano abbandonati ad un destino molto incerto. Ciò ha portato ad avere in Italia ad oggi migliaia di embrioni abbandonati. Per poter lasciare degli embrioni congelati in stato di abbandono, i genitori biologici devono produrre un documento scritto di rinuncia e non risultano più contattabili dalla clinica.

In Italia, a differenza di molti altri stati europei vi è un vuoto legislativo riguardo alle sorti di tali embrioni, quello che è certo è che essi non possono venire utilizzati né a scopo di ricerche scientifiche né possono venire donati a coppie infertili. Affinchè l’embriodonazione possa essere praticata in Italia, gli embrioni dovrebbero essere dichiarati “adottabili” e la legislazione in tal senso non esiste ancora.

Dott.ssa Stefania Luppi

Ferring: corso di formazione Comunicazione Medico Paziente

Come comunicare con la coppia desiderosa di avere un figlio e sapere quando consigliare di ricorrere alla procreazione medicalmente assistita – PMA

Procreazione medicalmente assistita: un corso per lo sviluppo e l’incremento di capacità comunicativo-relazionali dei medici.

Il giorno 7 febbraio presso lo Starhotel Echo di Milano si è svolto il corso di formazione promosso dall’Azienda Farmaceutica Ferring sulla comunicazione medico-paziente nell’ambito della procreazione medicalmente assistita. Il corso, animato dal Prof. Egidio Moja, Professore di Psicologia Generale e Direttore Scientifico del progetto C.U.R.A. dell’Università di Milano, è stato frequentato dai più noti infertivologi italiani e si proponeva come obiettivo lo sviluppo e l’incremento di capacità comunicativo-relazionali dei partecipanti-medici.

Tramite l’organizzazione di giochi di ruolo e simulazioni di colloqui, si è voluto richiamare l’attenzione sul vissuto emotivo delle coppie che si apprestano a ricorrere alle tecniche di PMA, coppie che spesso sono investite e stravolte da una forte crisi di vita marcata dal pullulare di sofferenze, incertezze, timori e dubbi.

L’incertezza e la forte emotività spesso rendono il colloquio coppia–medico complesso e contorto, i medici riscontrano delle difficoltà a trasmettere la corretta informazione e a gestire il consenso informato della coppia alla PMA. Quante informazioni vengono recepite dalla coppia durante il colloquio? Quanta consapevolezza e comprensione c’è nell’accettazione volontaria da parte della coppia al trattamento proposto dal medico?

Per evidenziare tutte le problematicità relazionali e comunicative, è stato proposto agli infertivologi presenti in sala di assistere ad un colloquio simulato tra un medico di PMA e una coppia che da due anni tentava di avere un figlio naturalmente senza successo. La coppia, mostrati i risultati degli esami diagnostici al medico, chiedeva un parere sulla possibilità di ricorrere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Il medico, dopo aver esaminato gli esami – che inesorabilmente denotavano un quadro clinico di difficoltà, sia per la bassa riserva ovarica della donna a causa dell’età avanzata, sia per gli esiti dello spermiogramma del compagno, doveva commentare i risultati degli esami alla coppia e consigliare cosa fare.

Dopo aver assistito alla simulazione di colloquio, il Prof Moja ha animato il dibattito tra gli infertivologi sollevando le seguenti domande:Come dire ad una coppia desiderosa di avere un figlio che ha oggettivamente scarse possibilità di riuscire a procrearlo? Il medico dovrebbe infondere fiducia, far sperare in un esito positivo di tale tecniche o limitarsi a riferire ed informare la coppia sulle procedure di PMA da tentare e sulle percentuali di successo/insuccesso delle tecniche?”

D’altra parte, la mancata gravidanza nella vita di una donna ha un effetto così destabilizzante da minare l’intero equilibrio psico-fisico, così come l’immagine e la rappresentazione di sé, soprattutto se la cultura e l’educazione ricevute sono state incentrate alla trasmissione dei valori della famiglia. Laddove queste “proiezioni” e “rappresentazioni” non siano soddisfatte ed appagate, ecco subentrare lentamente l’incertezza, l’insicurezza, il disorientamento, l’avvio di una fase di ricerca e di rimessa in discussione di se stessi.

Alcune simulazioni di colloquio hanno messo in evidenza come sia fondamentale per il medico prestare la massima attenzione alla scelta delle parole da utilizzare per commentare certi esiti o risultati di esami, il comportamento da assumere verso il paziente, se paternalistico, dettato dalla beneficialità, o informativo, guidato dal principio dell’autonomia.

Il corso è stato valutato molto positivamente dagli infertivologi ed è stato considerato un’iniziativa innovativa ad alto contenuto formativo ed un’occasione di dibattito e di confronto sulla gestione di casi concreti.

Si è tenuto in data 31 gennaio l’incontro al Corriere della Sera incentrato sulla Fecondazione Assistita.
Moderato dalla giornalista Daniela Natoli, il dibatto ha visto la partecipazione di Elisabetta Chelo del Centro Demetra di Firenze, il Professor Bini, Ospedale Niguarda di Milano, Eleonora Mazzoni, attrice ed autrice del libro “Le Difettose” e il Prof.Egidio Moja, psicologo, Università di Milano.

Al centro dell’incontro sono stati posti argomenti scomodi, quelli di cui generalmente i media non parlano, preferendo dare risalto alle gravidanze vip, che fanno notizia.
Troppo spesso si tende a lasciar passare sotto silenzio la vera realtà della Procreazione Medicalmente Assistita , non dando spazio sulle pagine dei giornali al peso psicologico che grava sulla donna e sulla coppia, alle difficoltà e alle delusioni a cui si va incontro.

Grazie ai progressi della scienza nel campo della contraccezione e nel settore medico in generale, nell’immaginario collettivo si è creata la convinzione che se la scienza è in grado di controllare le nascite, è anche in grado di controllare la fecondazione.
I mass media parlano solo dei successi della fecondazione assistita e si concentrano sulla straordinarietà degli eventi, dando grande risalto alla donna di 50 anni, attrice o cantante famosa, che rimane incinta e partorisce.
In questo modo si trasmette un messaggio molto fuorviante, si fa credere al grande pubblico che la scienza possa superare qualsiasi barriera, posta dall’età o dalle condizioni fisiche della donna e si accentua il senso di malessere e di sconfitta di coloro che non riescono a procreare né naturalmente né grazie alla PMA.

Spesso si trascura il fatto che circa il 20% delle coppie riscontrano difficoltà riproduttive. Tra quelle che decidono di rivolgersi a un centro per la fecondazione assistita, soltanto il 25% riesce a concepire con la PMA.

Durante l’incontro è stato dato molto spazio ad un’altra tematica molto importante e molto spesso trascurata: la comunicazione medico/paziente.
Nel tipo più tradizionale di comunicazione il medico si pone come una figura di guida, che tende a decidere al posto dei pazienti. Tuttavia questo ruolo di medico-guida viene messo in discussione dai modelli più recenti di comunicazione che prevedono un percorso che il medico e la coppia percorrono insieme.
Proprio questa complementarità tra medico e paziente, dovrebbe portare insieme queste figure ad abbandonare il percorso della PMA dopo numerosi insuccessi o un quadro clinico non favorevole.

Un canale di comunicazione aperto e basato sulla fiducia è importantissimo anche nel caso di debba trasmette una notizia non positiva. E’ importantissimo che il medico, oltre a conoscere la storia e il vissuto della coppia, sia in possesso degli strumenti comunicativi corretti per comunicare con i propri pazienti. E’ proprio questo il tema di uno studio, sovvenzionato dalla casa farmaceutica Ferring e condotto dal Professor Moja in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano.

Imparare a comunicare con i pazienti può determinare il successo di una terapia. A maggior ragione nel settore della Procreazione Medicalmente Assistita, dove i medici specialisti sono tenuti ad entrare in relazione con la coppia. Per imparare a gestire le situazioni critiche e ad adottare strategie relazionali efficaci, Ferring ha promosso recentemente un corso di comunicazione medico paziente, tenutosi a Roma e Milano. Vi hanno partecipato ginecologi, infettivologi ed esperti della PMA.

“Un figlio. Perché noi no?”. E’ quello che si chiedono le coppie italiane che si sottopongono a tecniche di fecondazione assistita. Ed è anche il titolo di un corso di comunicazione promosso da Ferring e rivolto a medici specialisti nel campo della procreazione medicalmente assistita. In Italia, una coppia su 7 è infertile e se le tecniche oggi disponibili rendono possibile la nascita di circa 10mila bambini all’anno, solo il 25-30% di coloro che sono in terapia diventano genitori.
Le coppie tendono a visitare diversi centri prima di scegliere il medico a cui affidarsi e i casi di abbandono della terapia, in gergo tecnico drop-out, si attestano intorno al 40%. Da qui, l’idea di un corso di comunicazione incentrato sulla relazione medico-paziente, che aiutasse i medici ad imparare a gestire la coppia e a instaurare una relazione con essa, in modo da ridurre gli insuccessi terapeutici.
“Abbiamo pensato che fosse un nostro dovere – racconta Paolo Zambonardi, amministratore delegato di Ferring Italia – come azienda impegnata sul piano etico, di offrire un servizio agli specialisti che avesse poi un riverbero sulla salute dei pazienti”. Il corso si proponeva di fornire ai medici alcuni strumenti per imparare a gestire le situazioni critiche, sviluppare una consapevolezza circa il proprio stile relazionale ed adottare strategie efficaci di interazione.
“Il problema principale che dobbiamo affrontare è che la gente arriva da noi con una massa di informazioni sbagliate – spiega Mauro Costa, responsabile scientifico del prossimo congresso Nazionale della Federazione Italiana delle Società Scientifiche della Riproduzione (FISSR) e direttore del Centro Sterilità dell’Ospedale Galliera di Genova che ha partecipato al corso – e, quindi, con delle aspettative sbagliate”. Le leggende metropolitane sul tema infertilità abbondano e dopo aver passato metà della prima visita a ‘decostruire’ ciò che la coppia è andata costruendo nel tempo, mettendo insieme informazioni raccolte dalle fonti più diverse, per il medico è necessario costruire una relazione con i pazienti. Un rapporto di fiducia che tenga conto del vissuto della coppia e delle sue aspettative.

“Un altro problema che riscontriamo – prosegue il dottor Costa – è che talvolta i pazienti ragionano in termini prettamente utilitaristici. Portano i propri esami anche in 3-4 cliniche diverse e si affidano al medico che sembra soddisfare più facilmente le proprie richieste, mentre bisogna investire del tempo e della voglia nella relazione”. E per instaurare una relazione con la coppia, una relazione che metta al centro della visita il paziente e non la malattia, è necessario lasciar parlare l’individuo e condividere il suo vissuto. Fatto anche, e talvolta soprattutto, di non detti e paure non espresse. E’ proprio questa la maggiore difficoltà che incontrano i medici, che sono stati impegnati durante il corso in attività di role-playing con coppie di attori che simulavano situazioni cliniche verosimili. Un’esperienza utile per mettere in luce il proprio stile relazionale, così come l’attività di scrivere una storia clinica e la descrizione di un successo professionale da condividere con gli altri specialisti.
La Professoressa Elena Vegni, docente di Psicologia Clinica presso la Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Milano e relatrice del corso, sottolinea l’importanza della comunicazione come elemento imprescindibile della professione del medico, perché saper comunicare con i pazienti può fare la differenza in termini di successo della terapia.

“Da una parte c’è il quadro clinico del paziente, su cui lo specialista interviene con le sue competenze di carattere biologico – spiega la Professoressa Vegni – ma dall’altra, il quadro clinico si innesta su una situazione di coppia unica, che offre una lettura del problema altrettanto unica. E’ proprio rispetto a questa lettura del problema che il medico deve interrogarsi, per imparare a ‘leggere la coppia’ che si trova di fronte a lui”. In altre parole, il medico deve imparare a cogliere il vissuto del paziente, la sua storia personale e la sua risonanza emotiva connessa al percorso terapeutico che sta intraprendendo, per poter adottare le strategie comunicative più efficaci.
Al dottor Costa piace ricordare un caso di successo che ben esemplifica questa necessità: una coppia rivoltasi a lui per problemi di infertilità ma che, in realtà, aveva problemi nell’avere rapporti sessuali. Ascoltando la coppia e facendo emergere difficoltà latenti, si è riusciti ad entrare in relazione con i due pazienti e a smascherare il problema di fondo, senza dover ricorrere a una fecondazione assistita.