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Esistono numerosi protocolli di stimolazione ovarica ma, per la fecondazione in vitro, i più utilizzati sono i protocolli di stimolazione lungo e corto. In entrambi i casi i farmaci impiegati sono gli stessi, mentre le differenze sostanziali riguardano il momento di somministrazione e le candidate all’accesso.
Vediamo allora di vedere, un po’ più nel dettaglio, quali sono le differenze sostanziali tra i protocolli di stimolazione lungo e corto.

 

Come funziona il protocollo di stimolazione lungo

Nel protocollo di stimolazione lungo la paziente inizia ad assumere gli ormoni il secondo giorno del ciclo. La funzione svolta da questi farmaci è di sopprimere gli ormoni FSH e LH in modo da bloccare l’ovulazione e la produzione di estradiolo. La soppressione controllata delle ovaie con il protocollo FIVET di stimolazione lungo prevede che i follicoli che si origineranno non saranno di dimensioni superiori ai 15 mm e consente allo specialista di controllare completamente la stimolazione ovarica, al fine di evitare una luteinizzazione precoce, ovvero un picco di LH intempestivamente determinato come risposta a concentrazioni crescenti di estrogeni, cioè quando il follicolo è ancora immaturo.
La stimolazione ovarica si effettua con antagonisti dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) e di norma la crescita follicolare è stabile. Una volta verificato che i follicoli hanno le giuste dimensioni (inferiori a 17 mm) e che il livello di estradiolo è buono (150-200 pg/ml), si somministra hCG (human chorionic ormone) o gonadotropina corionica per ottenere la maturazione ovarica finale. Queste iniezioni di hCG vengono somministrate, infatti, 32-36 ore prima del prelievo degli ovociti.

 

Come funziona il protocollo di stimolazione corto

Il protocollo di stimolazione corto ha durata di circa 4 settimane e corrisponde al ciclo naturale. Tende a essere consigliato alle donne “più avanti con l’età” (in genere dai 37 anni in su) soprattutto se hanno mostrato una bassa risposta delle ovaie nei precedenti cicli.
Tra i protocolli di stimolazione lungo e corto, la differenza è che in quest’ultimo la stimolazione inizia subito il primo giorno del ciclo per sfruttare la liberazione massiva di gonadotropine endogene che si verifica con la somministrazione di GNRHa, prima che s’instauri il blocco ipofisario. Se tutti i controlli e le analisi del sangue vanno bene si procede subito con la somministrazione delle GnRH antagoniste.
I vantaggi sono che, a differenza del protocollo lungo, la quantità introdotta di ormoni è molto più bassa. Se la donna non risponde a questo tipo di stimolazione è chiaramente evidente fin da subito che non può produrre ovuli per conto proprio e che, se desidera un figlio, l’unica opzione praticabile è un programma di FIVET che preveda l’ovodonazione.

Dott. Placido Borzì

Resto incinta, che fare degli embrioni sovrannumerari?

 

La coppia che ricorre alle tecniche di fecondazione assistita firma inizialmente un consenso informato in cui decide se vuole ottenere in quel ciclo un numero di embrioni tale da non averne in esubero in seguito al transfer in utero, oppure se vuole venga prodotto un numero maggiore di embrioni in modo da aumentare le probabilità di successo potendo selezionare gli embrioni migliori. Nel secondo caso è chiaro che il biologo insemina un numero di ovociti elevato che genererà degli embrioni in eccesso rispetto a quelli destinati al transfer, gli embrioni sovrannumerari possono essere congelati e utilizzati in cicli successivi per ottenere un’ulteriore gravidanza o perché il primo tentativo è fallito. Gli embrioni in esubero vengono crioconservati e mantenuti in banche di azoto liquido a -196°C. Il transfer da embrioni scongelati risulta molto semplice e per niente invasivo in quanto la donna non viene sottoposta ad alcuna stimolazione ovarica ne ad alcun intervento chirurgico. Tuttavia accade spesso, che, se la coppia ha già ottenuto una o più gravidanze e non desidera averne altre, pur avendo altri embrioni crioconservati a disposizione, decida di non volerli più. Secondo la legge 40 non si può obbligare una donna a trasferire in utero i suoi embrioni congelati, quindi restano abbandonati ad un destino molto incerto. Ciò ha portato ad avere in Italia ad oggi migliaia di embrioni abbandonati. Per poter lasciare degli embrioni congelati in stato di abbandono, i genitori biologici devono produrre un documento scritto di rinuncia e non risultano più contattabili dalla clinica.

In Italia, a differenza di molti altri stati europei vi è un vuoto legislativo riguardo alle sorti di tali embrioni, quello che è certo è che essi non possono venire utilizzati né a scopo di ricerche scientifiche né possono venire donati a coppie infertili. Affinchè l’embriodonazione possa essere praticata in Italia, gli embrioni dovrebbero essere dichiarati “adottabili” e la legislazione in tal senso non esiste ancora.

Dott.ssa Stefania Luppi

Il congelamento degli ovociti non è una moda, ma una tecnica utile in vista di una riduzione della fertilità, per accedere in seguito a una PMA

All’egg-freezing, il congelamento degli ovociti in vista di una futura gravidanza medicalmente assistita (PMA), il settimanale statunitense “Time” ha dedicato, a partire dall’estate, ben quattro pagine, seguite da più uscite nella versione online. Negli Stati Uniti infati la tecnica sta guadagnando consensi tra le donne più giovani, che si sono affacciate da poco al lavoro dopo i duri anni dell’Università e sono convinte che il congelamento degli ovociti possa essere il metodo più sicuro per poter rimandare la gravidanza al raggiungimento di una posizione lavorativa e di una situazione sentimentale più stabili.

Ma la crioconservazione dei gameti (compresi quindi gli spermatozoi) non è stata certo messa a punto con questo obiettivo. Piuttosto, il congelamento degli ovociti (così come del liquido seminale) è indicato in tutte le condizioni che portano a una progressiva riduzione della fertilità. La principale è la necessità di sottoporsi a trattamenti sicuramente lesivi, come la chemioterapia oncologica. Ma ci sono anche patologie in grado di compromettere la fertilità, perché colpiscono direttamente gli organi della riproduzione, come un’endometriosi severa, o l’esaurimento ovarico precoce, oppure perché sovvertono la salute dell’organismo in toto, come le malattie autoimmuni.

L’egg-freezing non è certo una procedura semplice: bisogna affrontare cicli di gonadotropine, di durata variabile da donna a donna, in grado di assicurare una stimolazione follicolare, destinata a ottenere un numero sufficiente di ovociti adatti alla crioconservazione e in grado di poter essere fecondati una volta scongelati. Ogni procedura di PMA con ovociti congelati prevede infatti l’impiego di cinque-sei ovociti, che in media permettono di ottenere tre-quattro embrioni impiantabili.

Sono tutti passaggi che, inevitabilmente, riducono la possibilità di avviare una PMA con successo. Tanto più se l’aspirante mamma utilizzerà gli ovociti congelati attorno ai 40 anni: anche se vengono utilizzati gameti prelevati e crioconservati negli anni “migliori”, cioè attorno al trentesimo compleanno, l’età della futura mamma resta un fattore cruciale per portare a termine i nove mesi di gestazione. a

Ecco perché il congelamento degli ovociti è un percorso senz’altro utile in specifiche condizioni di compromissione della fertilità, per poter procedere in seguito una PMA, ma deve essere affrontato in presenza di una necessità impellente e in seguito a una motivazione attentamente meditata, se possibile, con un buon sostegno psicologico.

Controllo della fertilità in paziente oncologicaIl problema della futura maternità in una donna con una patologia tumorale, dovrebbe essere tra i primi pensieri in un medico oncologo. Infatti sebbene l’incidenza delle neoplasie maligne raggiunge il picco massimo dopo i 50 anni d’età, ogni anno il tumore maligno viene diagnosticato a molte pazienti giovani ed in età riproduttiva.

Grazie alla prevenzione, alla diagnosi precoce ed alla ricerca la sopravvivenza a lungo termine di questi pazienti è migliorata moltissimo ma un’attenzione sempre crescente deve essere posta sulla qualità di vita di coloro che hanno sconfitto questa malattia. Il tumore e le terapie messe in atto per debellarlo possono infatti compromettere la normale funzionalità delle ovaie e quindi la fertilità delle pazienti.
La donna che ha avuto il cancro, a causa della chemio e della radioterapia, ha un rischio aumentato di avere un precoce esaurimento ovarico, una menopausa precoce per la perdita di patrimonio follicolare, la fibrosi ed un danno vascolare ovarico.

Nonostante l’impatto psicologico devastante provocato dalla diagnosi di tumore il medico non dovrebbe mai dimenticare di affrontare il problema della futura maternità della paziente ed inviarla velocemente presso un centro specializzato nella “preservazione della fertilità“.
Nonostante l’interesse crescente si stima che ben il 30-50% delle donne giovani e fertili affette da neoplasia non vengano correttamente informate ed indirizzate prima di iniziare la chemioterapia.
La valutazione del rischio “infertilità” e quale sia la strategia migliore da metter in atto per ciascuna paziente richiede un a stretta collaborazione tra specialisti: oncologi, ginecologi ed esperti in medicina della riproduzione. Il danno gonadico (alle ovaie) dipende infatti da diversi fattori come il tipo e la dose di chemioterapia e di radioterapia.

Naturalmente la donna non è obbligata ad aderire al protocollo di “fertility preservation” proposto ma deve essere informata sulle possibili strategie disponibili e sulle alternative attualmente a disposizione (come ad esempio ovodonazione ed embrio-donazione).

Esistono attualmente diverse alternative per preservare la fertilità di una donna:
Congelamento di ovociti o embrioni
Congelamento di biopsia ovarica con successivo reimpianto o coltura in vitro (in futuro) dei gameti umani (tecnica sperimentale ben lontana dalla pratica clinica)
Trasposizione ovarica
Trapianto d’utero

Il tipo di strategia per preservare la fertilità viene pianificato in base a diversi fattori come l’età della donna, il tipo di neoplasia e la conseguente terapia proposta, il tempo a disposizione prima di iniziare la chemioterapia, la presenza di un compagno e se sono presenti delle metastasi a livello delle ovaie.

Crioconservazione ovocitaria o embrionaria

Crioconservazione ovocitiLa criopreservazione ovocitaria consiste nella raccolta e nel congelamento degli ovociti non fecondati per un successivo utilizzo con una specifica tecnica di fecondazione assistita chiamata ICSI  ed un successivo reimpianto. In modo del tutto analogo la criopreservazione embrionaria consiste nella raccolta degli embrioni ottenuti attraverso la fecondazione degli ovociti, così che possano essere usati per per un successivo impianto.
Per poter congelare e conservare sia gli ovociti che gli embrioni è necessario che la donna si sottoponga ad una stimolazione ormonale per portare a maturazione più follicoli ed avere a disposizione un numero ottimale di ovociti, pronti per essere fecondati.

La crioconservazione può essere proposto in donne in età fertile e se si tratta di pazienti oncologiche, che siano in grado di ritardare l’inizio della terapia chemioterapica di 15-20 giorni. In questo caso, se le pazienti hanno un tumore ormono-sensibile vengono somministrati dei farmaci che bloccano i recettori ormonali per impedire al tumore di trarre “vantaggio” dalla stimolazione ormonale. Inoltre vengono utilizzati protocolli di stimolazione indipendenti dalla fase del  ciclo mestruale che permettono di iniziare la terapia in qualsiasi fase del ciclo e di ridurre al minimo il ritardo nell’inizio della chemioterapia.

La strategia attualmente più utilizzata è quella della criopreservazione ovocitaria poiché il congelamento embrionario richiede la presenza di un compagno/marito. Inoltre si presta a potenziali contenziosi giuridici in caso di separazione o decesso di uno dei due coniugi.
Attraverso il congelamento, gli ovociti o gli embrioni possono essere riutilizzati dalla paziente qualora ne avesse la necessità e non riuscisse a procreare spontaneamente, senza avere un limite temporale.

Criopreservazione di biopsia ovarica

Questa tecnica consiste nel congelamento del tessuto ovarico per poi effettuare il reimpianto dopo un trattamento antiblastico.
Si tratta di una metodica ancora sperimentale, che quindi necessita di ulteriori studi clinici per essere validata e ottimizzata ma offre importanti prospettive sia perché permette la conservazione della funzionalità riproduttiva e dell’attività steroidogenica cioè di produrre steroidi, tra cui gli ormoni sessuali. Un ulteriore vantaggio è che non richiede né stimolazione ormonale né la presenza di un partner.

La criopreservazione di biopsia ovarica potrebbe essere proposta a donne pre-pubere, che quindi non posso effettuare una crioconservazione degli ovociti, e nei casi di pazienti oncologiche in cui non sia possibile ritardare l’inizio della chemioterapia. E’ invece controindicata in caso di neoplasia con un elevato rischio di metastasi ovariche.

Questa tecnica è realizzata attraverso un intervento chirurgico in laparoscopia in cui viene asportato un frammento di corticale ovarica, con una biopsia ovarica, o  un intero ovaio. Il successo della metodica è strettamente legato alla quantità di materiale ovarico che la donna possiede al momento del prelievo.
Laparoscopia I frammenti ovarici asportati in questa prima fase possono essere congelati per un periodo illimitato per poi venir re-impiantati a livello ovarico con reimpianto ortotopico o in posizioni distanti dalle ovaie, in cui il reimpianto eterotopico viene effettuato ad esempio nell’addome, nell’avambraccio, o al seno.

Sebbene la funzione endocrinologica delle ovaie riprenda in modo corretto sia in caso di un reimpianto a livello delle ovaie che in posizioni distanti, le gravidanze che si sono verificate sono ottenute solo con reimpianto ortotopico.
La durata media del tessuto ri-trapiantato è di circa 5 anni pertanto possono essere necessari reimpianti successivi e consecutivi.
Le donne che hanno subito l’asportazione dell’intero ovaio mostrano un numero significativo di gravidanze spontanee, tuttavia l’asportazione dell’intero ovaio è un approccio molto aggressivo e può essere esso stesso causa di riduzione della riserva ovarica.

Un’altra, futuribile modalità di utilizzo del tessuto ovarico scongelato è quella della maturazione in vitro degli ovociti. Questa tecnica non è ancora standardizzata e perciò non ancora applicabile; ma molti centri di ricerca in tutto il mondo stanno lavorando in questo settore, e la speranza è che in tempi brevi si possa giungere ad una applicazione clinica. In buona sostanza, utilizzando un solo frammento di tessuto ovarico ed isolando i follicoli primordiali (pre-antrali ed antrali) in esso contenuti, si potranno ottenere in laboratorio molti ovociti maturi, successivamente impiegabili in tecniche di fecondazione assistita: a quel punto, il tessuto ovarico prelevato diventerebbe veramente una ‘banca’ di ovociti maturi per la persona.

Il vantaggio di questa tecnica è che il processo avviene completamente in vitro senza necessità di stimolazione ormonale alla donna.
Inoltre verrebbero  reimpiantati nella paziente solo embrioni ( che non contengono cellule somatiche della madre) riducendo a zero il rischio di re-introdurre cellule tumorali all’interno della paziente ricevente.

Trasposizione ovarica

La trasposizione ovarica è una tecnica chirurgica che consiste nello spostare le ovaie il più possibile lontano dal campo di irradiazione, in modo da preservare questi tessuti dall’azione della radioterapia che altrimenti potrebbe danneggiare la fertilità. La trasposizione ovarica è infatti una metodica rivolta a donne in età fertile che devono sottoporsi a irradiazione pelvica.
Se nel trattamento primario del tumore non è stata effettuata una laparotomia, la metodica di trasposizione può essere svolta con una semplice laparoscopia. Con questa metodica le ovaie vengono mobilizzate e posizionate il più alto possibile fuori dalla pelvi, solitamente a livello addominale nelle logge paracoliche. Inoltre nello stesso intervento è anche possibile effettuare un prelievo di corteccia ovarica per la criopreservazione.
Poiché le ovaie possono spostarsi, la trasposizione ovarica è una procedura che deve essere eseguita quanto più possibile vicino al momento del trattamento d’irradiazione, in questo modo la probabilità che si riposizioni nella zona irradiata sarà bassa. Il successo della metodica è correlato con l’età della paziente, diminuendo con l’aumento di età della donna.

 

Trapianto dell’utero

shutterstock_173299247Questa metodica prevede il trapianto da una donatrice ad una donna ricevente ed è adatta per pazienti che hanno dovuto subire un’asportazione uterina per una patologia come un tumore o una grave emorragia, o per donne nate con un’assenza congenita dell’utero, come per le pazienti con Sindrome di Rokitansky.
Il trapianto dell’utero è ancora una tecnica sperimentale che è stata eseguita poche volte nel mondo e si è concluso per la prima volta con successo, con la nascita di un maschietto sano a fine 2014. È accaduto in Svezia, dove una donna di 35 anni ha partorito con taglio cesareo suo figlio, dopo aver subito, un trapianto dell’utero grazie alla donazione di una sessantenne.

Per effettuare un trapianto d’utero è necessaria una donatrice che ha terminato il desiderio di prole a cui viene praticata un’ isterectomia fatta in modo da preservare l’integrità dell’organo. L’utero viene così impiantato nella ricevente. La ricevente conserva perciò le proprie ovaie che sono collegate all’utero donato e che con il passare dei giorni riacquista le sue normali funzioni fino ad avere un normale ciclo mestruale.
Naturalmente la paziente, come in tutti gli allotrapianti, deve sottoporsi a terapia immunosoppressiva importante al fine di evitare un rigetto dell’organo.

Leggi a chi rivolgersi per preservare la fertilità.

Articolo realizzato con il contributo scientifico della Dott.ssa Paola Persico – Medico chirurgo specialista in Ostetricia e Ginecologia.