Qualunque forma essa prenda, la diagnosi d’infertilità scuote le radici profonde dell’immagine di sé costituendo un’esplosione emotiva che necessita, quasi sempre, di un intervento psicoterapico, volto ad aiutare le persone a superare l’angoscia, il dolore, la deprivazione.
L’intervento psicoterapico ha lo scopo, in primis, di spingere la coppia verso una ridefinizione dell’identità, incanalando e sublimando il bisogno di prendersi cura verso un’immagine più libera, radicandola nelle personali capacità creative, piuttosto che non restringendola alle sole capacità procreative.
L’intervento psicoterapico deve servire anche a scindere atto sessuale e fecondazione
Un’altra funzione che ha l’intervento psicoterapico, all’interno dei percorsi di PMA, consiste nell’aiutare la coppia a recuperare l’intimità sessuale inevitabilmente violata dalle tecnologie. Molto spesso il ricorso alle tecniche di PMA si ripercuote negativamente sulla vita sessuale della coppia, con conseguente calo della libido in entrambi i sessi, fino alla disfunzione erettile nell’uomo e con una riduzione della fertilità nella donna. L’elaborazione della separazione tra atto sessuale e fecondazione è un punto cruciale dell’intervento psicoterapico che può condurre ad accettare una declinazione della sessualità fondata sul senso di appartenenza affettiva e a facilitare il superamento del vissuto mortifero connesso a una generatività desessualizzata.
Anche dopo la nascita del figlio l’intervento psicoterapico serve a gestire sentimenti complessi
Inoltre, il grado di elaborazione da parte degli adulti dei vissuti angosciosi connessi alla PMA, induce a ritenere altamente opportuno l’intervento psicoterapico specifico per le coppie anche successivamente alla nascita del figlio così tanto atteso, sia perché la realizzazione del desiderio costringe i genitori a confrontarsi con quel groviglio di sentimenti complessi che l’insuccesso riproduttivo aveva accantonato, sia perché i bambini voluti caparbiamente sono esposti più degli altri al rischio di rimanere soffocati in un rapporto esclusivo con i genitori, in particolare con la madre, privati della possibilità di accedere ad altri investimenti relazionali.
Dott.ssa Angela Petrozzi
Esistono numerosi protocolli di stimolazione ovarica ma, per la fecondazione in vitro, i più utilizzati sono i protocolli di stimolazione lungo e corto. In entrambi i casi i farmaci impiegati sono gli stessi, mentre le differenze sostanziali riguardano il momento di somministrazione e le candidate all’accesso.
Vediamo allora di vedere, un po’ più nel dettaglio, quali sono le differenze sostanziali tra i protocolli di stimolazione lungo e corto.
Come funziona il protocollo di stimolazione lungo
Nel protocollo di stimolazione lungo la paziente inizia ad assumere gli ormoni il secondo giorno del ciclo. La funzione svolta da questi farmaci è di sopprimere gli ormoni FSH e LH in modo da bloccare l’ovulazione e la produzione di estradiolo. La soppressione controllata delle ovaie con il protocollo FIVETdi stimolazione lungo prevede che i follicoli che si origineranno non saranno di dimensioni superiori ai 15 mm e consente allo specialista di controllare completamente la stimolazione ovarica, al fine di evitare una luteinizzazione precoce, ovvero un picco di LH intempestivamente determinato come risposta a concentrazioni crescenti di estrogeni, cioè quando il follicolo è ancora immaturo.
La stimolazione ovarica si effettua con antagonisti dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) e di norma la crescita follicolare è stabile. Una volta verificato che i follicoli hanno le giuste dimensioni (inferiori a 17 mm) e che il livello di estradiolo è buono (150-200 pg/ml), si somministra hCG (human chorionic ormone) o gonadotropina corionica per ottenere la maturazione ovarica finale. Queste iniezioni di hCG vengono somministrate, infatti, 32-36 ore prima del prelievo degli ovociti.
Come funziona il protocollo di stimolazione corto
Il protocollo di stimolazione corto ha durata di circa 4 settimane e corrisponde al ciclo naturale. Tende a essere consigliato alle donne “più avanti con l’età” (in genere dai 37 anni in su) soprattutto se hanno mostrato una bassa risposta delle ovaie nei precedenti cicli.
Tra i protocolli di stimolazione lungo e corto, la differenza è che in quest’ultimo la stimolazione inizia subito il primo giorno del ciclo per sfruttare la liberazione massiva di gonadotropine endogene che si verifica con la somministrazione di GNRHa, prima che s’instauri il blocco ipofisario. Se tutti i controlli e le analisi del sangue vanno bene si procede subito con la somministrazione delle GnRH antagoniste.
I vantaggi sono che, a differenza del protocollo lungo, la quantità introdotta di ormoni è molto più bassa. Se la donna non risponde a questo tipo di stimolazione è chiaramente evidente fin da subito che non può produrre ovuli per conto proprio e che, se desidera un figlio, l’unica opzione praticabile è un programma di FIVET che preveda l’ovodonazione.
Dott. Placido Borzì
I fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA, se valutati in anticipo, possono aiutare i medici a reinstradare le pazienti nell’iter terapeutico.
Dopo aver descritto i motivi e le principali situazioni che portano una coppia al drop-out della PMA, ovvero a decidere di abbandonare il percorso diagnostico-terapeutico per l’infertilità, è opportuno, infatti, esaminare i cosiddetti fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA.
Valutare per tempo i suddetti fattori, dunque, può essere un buon aiuto per gli specialisti a individuare le coppie più propense all’abbandono e a intervenire nel modo giusto per far capire l’importanza dell’aderenza all’iter terapeutico.
Tre le variabili ascrivibili tra i fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA
I fattori predittivi di abbandono dei trattamenti della PMA sono legati prevalentemente a tre variabili. Analizziamoli nel dettaglio.
Storia dell’infertilità: abbandonano più facilmente le coppie che:
hanno già avuto un figlio;
in cui la causa dell’infertilità è maschile;
le donne con endometriosi e con problemi cronici di ovulazione.
Tipo di trattamento: abbandonano più facilmente le pazienti:
sottoposte a regimi terapeutici molto aggressivi;
quelle in cui è stato recuperato un basso numero di ovociti, in cui l’embryo transfer non è stato effettuato per mancata fertilizzazione degli ovuli;
chi ha avuto una gravidanza esitata in aborto;
che hanno aspettato un tempo troppo lungo tra un trattamento e un altro.
Tipologia di pazienti: correlati negativamente al completamento dei trattamenti sono:
età avanzata;
fattori psico-sociali;
difficoltà economiche;
problemi di relazione di coppia;
basso livello sociale;
fattori personali quali idiosincrasia, motivi etici, ansia e depressione, logistica, paura per la propria salute, altre scelte come l’adozione.
Riferimenti bibliografici
1. Verhagen et al, Human Reproduction 2008, 23: 1793-99
2. Gameiro et al, Human Reproduction Update 2012, Nov, 18(6): 652-69
3. M. Brandes et al, Human Reproduction 2009 vol 24, N° 12: 3127-35
4. S. Gameiro et al, Human Reproduction Update, 2012, vol 0, pp 1-12
5. Domar et al, Human Reproduction 2012, n°4, pp 1073-79
Dott.ssa Luciana De Lauretis
Lo stress può essere causa d’infertilità perché favorisce la produzione di cortisolo impedendo all’organismo di concepire
Generare aiuta l’uomo e la donna a completare il proprio processo evolutivo di cui fanno parte l’essere figlio, poi giovane-adulto, uomo, padre e infine nonno. Quando questo processo si inceppa, inevitabilmente nella persona si sviluppa stress. Il concetto di stress si inserisce in una visione moderna dell’uomo, in cui mente e corpo non sono scissi, ma integrati, e la salute, così come descritta dall’Organizzazione mondiale della sanità, è uno stato di completo benessere fisico, psicologico e sociale. Il concetto di salute, così inteso, ci fa comprendere in modo più allargato anche il concetto di malattia, intesa come un’alterazione dello stato di salute dovuta non solo e/o non sempre a una causa organica, ma solitamente a più fattori. In questa logica si capisce bene che anche lo stress può essere causa d’infertilità perché determina una condizione di mancato benessere psicofisico.
Lo stress può essere causa d’infertilità, soprattutto di quella inspiegata
A tale proposito, nelle ultime linee guida si legge che il 15% di coppie che accedono a un percorso di PMA (procreazione medicalmente assistita) riceve una diagnosi d’infertilità cosiddetta inspiegata, un’infertilità cui non si riesce ad attribuire una causa accertata, ma a cui si imputano più cause: infertilità definita idiopatica. Entrano in gioco, spesso in questi casi, i fattori psicologici.
C’è dunque un legame tra psicologia e infertilità, ma quale è la causa e quale la conseguenza?
Per rispondere al quesito dobbiamo ripartire dal modello mente-corpo e descrivere il meccanismo dello stress come un fattore da cui partono una serie di effetti-cascata che interessano sia il sistema nervoso autonomo, che reagisce allo stress con specifiche risposte emotivo-comportamentali, sia quello biologico che attiva una serie di risposte ormonali la cui conseguenza può essere riassunta con un calo della libido in entrambi i sessi, fino alla disfunzione erettile nell’uomo e con una riduzione della fertilità nella donna. Dunque lo stress può essere causa d’infertilità.
Un organismo sotto stress non ha le energie per avviare una gravidanza
Un organismo sottoposto a stress va in allarme e, per far fronte a tale situazione ansiogena e reperire tutte le risorse, ha bisogno di un risparmio energetico.La gravidanza è una faccenda troppo dispendiosa per un organismo: un individuo sotto stress difficilmente potrà permettersela. I motivi per cui lo stress può essere causa d’infertilità sono da ricercare nei tratti della personalità. Una struttura di personalità ansiosa e perfezionista, tendente al controllo, con scarsa tolleranza alla frustrazione, difficoltà a chiedere aiuto, elementi psicopatologici pregressi, come disturbi del comportamento alimentare, avrà difficoltà a concepire perché questi sono tutti elementi caratterizzati da una scarsa flessibilità e un’elevata rigidità e competitività.
Se lo stress cala è più probabile che avvenga il concepimento
Sarà capitato a molte coppie infertili, senza una precisa causa, di sentirsi dire da un familiare e/o da un amico “non ci pensate e vedrete che presto arriverà una gravidanza”. Non pensare in tali situazione è pressoché impossibile, paradossale. Soltanto quando sarà la coppia stessa, dopo vari tentativi deludenti di mettere al mondo un figlio, a decidere di abbandonare il progetto e sarà pronta a scegliere strade alternative, è probabile che a questo punto si instauri una gravidanza. Difficile spiegarlo, o meglio dimostrarlo, ma si ipotizza che in quel momento la coppia si mostri più flessibile, esca da uno schema rigido in cui esiste soltanto quell’unico obiettivo, quell’unica soluzione. La coppia si rilassa, la tensione diminuisce, l’organismo sente che non esiste più uno stato di allerta, la produzione ormonale cambia, perché viene meno la produzione di cortisolo, (l’ormone dello stress), il corpo si risveglia predisponendosi ad accogliere una gravidanza.
Dott.ssa Angela Petrozzi
L’infertilità può essere causa di depressione: mina il “progetto bambino” della coppia, isolandola
Diversi sono i vissuti psicologici che si sviluppano in seguito alla diagnosi d’infertilità o ancora peggio di sterilità. Indubbiamente l’infertilità può essere causa di depressione perché il mancato raggiungimento dello scopo “diventare genitore” nella maggior parte dei casi provoca veri e propri stati depressivi che coincidono con il fallimento e la perdita di un sogno, sentimenti di ansia, di colpa, isolamento, perdita di interessi, difficoltà di concentrazione, pensieri negativi, difficoltà del sonno e cambiamenti importanti nelle abitudini alimentari e sessuali.
Un segreto che isola socialmente e mina la coppia: l’infertilità può essere causa di depressione
Durante l’ovulazione della donna, la coppia vive l’ansia di un rapporto sessuale programmato finalizzato a procreare, all’arrivo della mestruazione arriva lo sconforto determinato dall’ennesimo fallimento. Le coppie si sentono diverse, non riescono in una cosa del tutto naturale, sviluppano sentimenti di vergogna e di colpa. Dunque l’infertilità può essere causa di depressione e diventare un segreto che li appesantisce e li isola dalle relazioni sociali. Si riscontrano tentativi di evitamento delle coppie con bambini e si osserva la preferenza per coppie simili. Spesso tali vissuti ricadono anche sull’equilibrio della coppia stessa. L’isolamento non si osserva soltanto in relazione agli “altri”, intesi quelli al di fuori della coppia, ma anche nei confronti del partner stesso, che talvolta viene tagliato “fuori”. Sempre più spesso la coppia si chiude rispetto al compagno/a, lo esclude dalle proprie visite specialistiche vissute come un peso. La coppia è messa a dura prova di resistenza. Tutto quello che la coppia ha costruito finora, sembra scomparire, non esistere più. La coppia deve rielaborare una perdita, quella di essere genitore.
L’infertilità può essere causa di depressione perché distrugge “il progetto bambino” che abita in noi da sempre
Prima ancora di nascere e di essere concepito, il bambino della coppia esiste nel loro immaginario. Durante l’infanzia, i bambini fantasticano di avere a loro volta un bambino nella pancia, il che corrisponde al desiderio di essere uguali ai loro genitori. L’infertilità può essere causa di depressione perché quando questo progetto non si realizza in età adulta è necessario elaborare un lutto come la perdita di un progetto importante, che affonda le sue radici nell’infanzia. A questo punto la coppia ha bisogno di un intervento specialistico che l’aiuti a ristrutturare la percezione di sé e di coppia.
Se la coppia sceglie la PMA occorrerà un supporto psicologico sin dall’inizio del percorso
Il fatto che l’infertilità può essere causa di depressione rende fondamentale necessità di attivare, per le coppie che accedono a un percorso PMA (procreazione medicalmente assistita), spazi di consulenza psicologica rivolti alla persona e alla coppia stessa. Questo significa garantire una consulenza alle persone prima di iniziare le singole procedure diagnostiche. Le coppie non devono soltanto essere informate, ma devono poter avere la possibilità di maturare un’accettazione consapevole della tecnica proposta.
Nasce quindi la necessità per lo psicologo di affiancare il medico fin dai primi colloqui. Poter osservare come le coppie rispondono fin da subito al carico emotivo che la PMA comporta significa, per lo psicologo, identificare precocemente le coppie più a rischio, quelle che necessitano di un maggiore e tempestivo intervento psicologico. In questo senso l’attività di consulenza non ha esclusivamente finalità terapeutica, ma anche carattere decisionale per le successive tappe da intraprendere. Lo psicologo comincerà a interessarsi alle credenze di quella coppia, cercherà di comprendere quale stile di risposta (coping) utilizza quella coppia solitamente nelle situazioni ansiogene e stressanti, cercherà di mettere in relazione i loro pensieri con le loro emozioni, tentando di anticipare come tutti questi vissuti potrebbero ricadere sulle relazioni. Lo psicologo proverà a prendere in considerazione tutti questi aspetti della persona con lo scopo principale di tenere la coppia in equilibrio, in una fase estremamente faticosa e turbolenta.
Dott.ssa Angela Petrozzi
Le ragioni di abbandono in PMA, in linea generale, sono principalmente attribuibili a stress psico-fisico, a vari tipi di paure, oltre a scarsa fiducia nel centro e nello staff medico.
Va detto che le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) forniscono elevate probabilità cumulative di gravidanza, ma a dispetto di queste buone possibilità di realizzare il proprio progetto genitoriale, molte coppie, per una propria decisione, scelgono di non seguire il trattamento in maniera continuativa, quindi per ragioni che non sono di ordine medico né relative ai costi dei trattamenti stessi. Anzi, molte volte si tratta di pazienti a buona prognosi e in grado di sostenere il peso economico delle terapie.
Inoltre è importante evidenziare questi dati:
• circa la metà delle coppie infertili non ricorre a trattamenti per l’infertilità;
• un terzo delle coppie abbandona dopo il primo fallimento FIVET/ICSI;
• il 1° ciclo è quello più favorevole sui risultati, ma più tentativi aumentano le probabilità di arrivare alla gravidanza;
• la percentuale di bambini nati da tecniche di PMA è il 22% per ogni ciclo iniziato e può raggiungere il 50% se i pazienti si sottopongono ad un numero ottimale di cicli (3);
• esiste un modello teorico secondo il quale il Centro di PMA registrerebbe circa il doppio di gravidanze se tutte le coppie senza successo fossero disposte a concludere 7 cicli di PMA.
Le principali ragioni di abbandono in PMA? Stress emotivo e fisico (Global Burden of Disease)
Ma quante sono le coppie che abbandonano? Il dato è estremamente disomogeneo. Nell’ambito della letteratura scientifica può variare dal 7 all’80 per cento. In media il numero di abbandono in PMA è compreso tra il 25 e il 60 per cento.
I momenti più critici nell’interruzione si verificano nel 50 per cento dei casi prima che inizi qualunque trattamento e 2/3 dei pazienti abbandona prima di iniziare procedure di 2° livello (FIVET/ICSI).
Le ragioni di abbandono in PMA sono principalmente: lo stress emotivo, la scarsa prognosi, il rifiuto dei trattamenti e problemi di relazione.
In termini generali, le cause dell’abbandono possono essere raggruppate in tre fattori. Vediamoli.
1. fattori legati alla coppia/individuo: si tratta di paure e timori nei riguardi delle procedure, della salute dei futuri bambini, e di aspettative spesso non realistiche;
2. fattori legati al Centro medico: accesso alle cure, tempi di attesa, organizzazione dello staff di lavoro, deficit d’informazione e difficoltà nella comunicazione, mancanza di supporti psicologici;
3. fattori legati al trattamento in sé: complessità delle terapie, numero di iniezioni, difficoltà a inserire i numerosi controlli nel proprio contesto di lavoro, logistica eccetera. Dott.ssa Luciana De Lauretis