Maurizio Bini SSD Diagnosi e Terapia della sterilità e Crioconservazione ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda. Cà Granda, Milano
La disforia di genere, o disturbo dell’identità di genere, cioè quel malessere percepito da un individuo che non si riconosce nel proprio sesso fenotipico o nel genere assegnatogli alla nascita, comporta evidenti ripercussioni quando si tratta di riproduzione.
Le procedure di adeguamento di genere comportano problemi specifici in campo riproduttivo che devono essere sempre discussi prima di ogni scelta terapeutica ormonale o chirurgica.
La disforia di genere: agli aspetti burocratici a quelli riproduttivi
La legge 164/ 82 che norma sul territorio Italiano i percorsi per la riassegnazione di genere in pazienti con disforia è da sempre stata interpretata nel senso di prevedere la chirurgia genitale prima della variazione anagrafica.
A seguito della sentenza della corte di Cassazione n 15138 del luglio 2015 è stato consentito in alcuni casi il cambio del nome e del sesso attribuito anche senza interventi genitali, se il soggetto mostra una definitiva integrazione con la nuova identità.
Le due situazioni determinano problematiche differenti in merito ai processi riproduttivi e all’eventuale crioconservazione gametica. In caso di mantenimento dell’integrità anatomica infatti il recupero della fertilità può sempre essere tentato anche in epoca successiva alla riassegnazione (se nel frattempo il paziente non ha superato l’età riproduttiva) con la sospensione prolungata della terapia ormonale ed eventuale stimolo gonadotropinico per superare lo stato di ipogonadismo ipogonadotropo indotto farmacologicamente.
In caso di procedure chirurgiche di riassegnazione genitale si pone invece il problema della preservazione preventiva della fertilità dei soggetti.
Le linee guida internazionali prevedono che l’opzione di crioconservazione sia offerta a tutti i pazienti che debbano intraprendere una chirurgia genitale demolitiva e risulta quindi indispensabile sempre avere a disposizione documentazione firmata dell’avvenuta discussione preventiva delle opzioni di preservazione della fertilità, perché molto spesso il desiderio riproduttivo matura in epoca successiva quando le urgenze delle modifiche corporee diventano meno pressanti e le situazioni relazionali più consolidate. Le situazioni sono ovviamente dissimili nei transiti MtF e FtM (questa la dizione clinica corretta) data la diversa numerosità e accessibilità dei gameti nei due sessi.
Disforia di genere: uomo verso donna
La crioconservazione di gameti maschili è ovviamente più semplice e meno costosa data la non necessità di induzione farmacologica anche se l’urgenza riproduttiva in questo tipo di conversione è in genere meno sentita in questa prima fase del processo. Una terapia femminilizzante e antiandrogena moderata già in corso non controindica il deposito anche se la sospensione trimestrale è consigliata; in qualche caso è indispensabile la somministrazione di inibitori selettivi della 5 fosfodiesterasi per facilitare il processo erettivo o l’induzione meccanica dell’ejaculazione con elettrostimolatori. La crioconservazione di polpa testicolare in corso di orchiectomia viene effettuata raramente perché i soggetti sono avviati alla chirurgia dopo periodi prolungati di terapia ormonale che inducono azoospermia secretoria.
Essendo l’attrazione sessuale fattore del tutto indipendente rispetto all’identità di genere è possibile che dopo la strutturazione genitale in senso femminile il soggetto costituisca coppia omoparentale con altro soggetto di sesso femminile che possa essere fertilizzato (non in Italia visto il divieto dell’art 2 della legge 40) col seme crioconservato. Nella maggior parte dei casi viene strutturata una relazione con soggetto di sesso maschile; in questo caso una eventuale riproduzione sarà possibile solo utilizzando madre surrogata e ovodonazione (ovociti fertilizzati con i gameti maschili dei due partner). Anche questa pratica è vietata in Italia in base all’articolo della legge 40.
Disforia di genere: donna verso uomo
Una crioconservazione di gameti femminili è decisamente più complessa per la necessità dell’induzione farmacologica, del tempo di maturazione, del monitoraggio e del prelievo transvaginale.
In accordo con le altre indicazioni, non essendo seguita da transfer, la stimolazione può essere iniziata in qualsiasi momento del ciclo e richiede dai 12 ai 15 giorni per la completa maturazione follicolare. I protocolli utilizzati per l’ovodonazione (ciclo short con gonadotropine e antagonista e trigger con analogo) sembrano i più appropriati consentendo un più rapido spegnimento del quadro di iperstimolazione ovarica indotta. Data la frequente avversione verso gli aspetti penetrativi endovagionali di soggetti che hanno richiesto la transizione verso il maschile il monitoraggio transaddominale e il prelievo transvaginale in anestesia generale sono i più appropriati.
Uno stoccaggio di almeno 12 ovociti migliora la prognosi riproduttiva successiva. L’induzione multipla dell’ovulazione per crioconservazione in pazienti con disforia non rientra nei casi previsti di l’esenzione per l’acquisto delle gonadotropine (nota 74) quindi la spesa farmacologica resta a carico dei soggetti. La crioconservazione di tessuto ovarico in corso di castrazione chirurgica, pur essendo pratica sperimentale ,è pratica comunque da suggerire in soggetti giovani data la disponibilità temporanea e senza rischi aggiuntivi per la paziente di materiale potenzialmente utilizzabile in tempi futuri. Nel transito verso il maschile l’attrazione sessuale esclusiva verso altri soggetti di sesso maschile è così infrequente da poter essere tralasciata. Più comune è l’attrazione per il femminile (o la bisessualità). La richiesta riproduttiva di coppia ha quindi a disposizione sia l’utero (eventualmente due se la rettificazione anagrafica è avvenuta senza correzione genitale) che due popolazioni ovocitarie.
Mancano solo i gameti maschili; una fecondazione eterologa di primo o secondo livello è quindi possibile per il partner con anagrafica femminile anche sul territorio italiano in base alla sentenza 162/14 della Corte Costituzionale. Una fecondazione eterologa sul partner con anagrafica maschile a genitali femminili integri è possibili solo in paesi (ex USA) dove la medicina contrattualistica è prevalente su quella deontologica.
Le criticità
Per concludere si segnalano ulteriori due criticità: la prima è relativa alla tracciabilità e utilizzo di campione crioconservato in soggetto che ha cambiato l’anagrafica e quindi la necessità che al momento della richiesta di utilizzo il soggetto esibisca documentazione in merito all’avvenuta transizione (l’informazione preventiva su questo punto al paziente non è superflua data la diffusa tendenza dei pazienti a cancellare qualsiasi traccia documentale del periodo antecedente la modifica corporea).
La seconda criticità riguarda la tendenza attuale alla drastica riduzione dell’età di accesso nei servizi che si occupano di disforia di genere. Sempre più pazienti (supportati dall’ambito famigliare non più oppositivo ma incoraggiante) richiedono di iniziare la transizione in epoca prepubere. Data la delicatezza di queste situazioni la diagnostica è particolarmente accurata e supervisionata ma in alcuni casi indubitabili viene deciso un blocco ipotalamico con analoghi del GnRH per impedire lo sviluppo dei caratteri sessuali secondari e quindi evitare la successiva rimozione chirurgica. E’ evidente che in questi casi il blocco riguarda anche la linea gametica che ancora non è maturata e che quindi i pazienti e i genitori devono essere preventivamente informati che la crioconservazione in questi casi non può essere effettuata.
Quali sono i casi in cui è opportuno consigliare la crioconservazione dei gameti e perché?
Esiste un numero sempre maggiore di condizioni in cui il ricorso a tecniche di crioconservazione potrebbe rappresentare la sola opzione terapeutica. La possibile comparsa di sterilità o infertilità secondaria ai trattamenti antiproliferativi e il disagio psicosociale che ne deriva sono temi di importanza crescente, non solo per il miglioramento della prognosi nei pazienti oncologici in età pediatrica e giovanile, ma anche per lo spostamento in avanti dell’età alla prima gravidanza.
Oltre ai casi oncologici, bisogna considerare ulteriori campi di applicazione: esistono infatti numerose condizioni patologiche in cui si assiste a un progressivo peggioramento delle capacità riproduttive in entrambi i sessi.
Negli uomini ci sono patologie che necessitano di terapie farmacologiche tali da indurre danni alla spermatogenesi; è anche possibile che si renda necessario il ricorso a interventi chirurgici uro-genitali lesivi per la funzione eiaculatoria. Alcuni pazienti, invece, mostrano un severo e progressivo peggioramento della qualità del seme, che può essere correlato a particolari attività professionali, che comportano una prolungata esposizione a sostanze tossiche per la gametogenesi, o a modificazione dei parametri ormonali. Infine, non bisogna dimenticare i casi di giovani uomini che si sottopongono a vasectomia, per evitare gravidanze indesiderate: la crioconservazione rappresenta evidentemente la possibilità di mantenere la capacità riproduttiva, qualora dovesse successivamente insorgere il desiderio di prole.
Anche per le donne possono sussistere numerose condizioni patologiche che compromettono la fertilità: l’endometriosi severa, le malattie autoimmuni, l’esaurimento ovarico precoce, in cui la capacità delle gonadi di produrre ovociti è fortemente compromessa. Oltre che in queste condizioni, la crioconservazione può essere utile per ridurre i rischi di iperstimolazione ovarica, che può insorgere durante l’applicazione dei protocolli terapeutici usati nella fecondazione assistita per indurre la crescita follicolare multipla. Se in corso di terapia dovessero verificarsi le condizioni di rischio per tale patologia, è consigliabile evitare ulteriori cicli di stimolazione ormonale, prelevando tutti i gameti prodotti e precedendo con la crioconservazione di quelli non “utilizzati” nel corso dello stesso ciclo.
Infine, oggi sempre più spesso le donne manifestano il desiderio di rimandare la maternità per ragioni “sociali” (carriera) o per mancanza di un partner; in tal caso procedere alla crioconservazione dei gameti prima dei 35 anni potrebbe rappresentare la sola possibilità di preservare la riproduzione.
Dott. Alessandro Giuffrida
Esistono numerosi protocolli di stimolazione ovarica ma, per la fecondazione in vitro, i più utilizzati sono i protocolli di stimolazione lungo e corto. In entrambi i casi i farmaci impiegati sono gli stessi, mentre le differenze sostanziali riguardano il momento di somministrazione e le candidate all’accesso.
Vediamo allora di vedere, un po’ più nel dettaglio, quali sono le differenze sostanziali tra i protocolli di stimolazione lungo e corto.
Come funziona il protocollo di stimolazione lungo
Nel protocollo di stimolazione lungo la paziente inizia ad assumere gli ormoni il secondo giorno del ciclo. La funzione svolta da questi farmaci è di sopprimere gli ormoni FSH e LH in modo da bloccare l’ovulazione e la produzione di estradiolo. La soppressione controllata delle ovaie con il protocollo FIVETdi stimolazione lungo prevede che i follicoli che si origineranno non saranno di dimensioni superiori ai 15 mm e consente allo specialista di controllare completamente la stimolazione ovarica, al fine di evitare una luteinizzazione precoce, ovvero un picco di LH intempestivamente determinato come risposta a concentrazioni crescenti di estrogeni, cioè quando il follicolo è ancora immaturo.
La stimolazione ovarica si effettua con antagonisti dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) e di norma la crescita follicolare è stabile. Una volta verificato che i follicoli hanno le giuste dimensioni (inferiori a 17 mm) e che il livello di estradiolo è buono (150-200 pg/ml), si somministra hCG (human chorionic ormone) o gonadotropina corionica per ottenere la maturazione ovarica finale. Queste iniezioni di hCG vengono somministrate, infatti, 32-36 ore prima del prelievo degli ovociti.
Come funziona il protocollo di stimolazione corto
Il protocollo di stimolazione corto ha durata di circa 4 settimane e corrisponde al ciclo naturale. Tende a essere consigliato alle donne “più avanti con l’età” (in genere dai 37 anni in su) soprattutto se hanno mostrato una bassa risposta delle ovaie nei precedenti cicli.
Tra i protocolli di stimolazione lungo e corto, la differenza è che in quest’ultimo la stimolazione inizia subito il primo giorno del ciclo per sfruttare la liberazione massiva di gonadotropine endogene che si verifica con la somministrazione di GNRHa, prima che s’instauri il blocco ipofisario. Se tutti i controlli e le analisi del sangue vanno bene si procede subito con la somministrazione delle GnRH antagoniste.
I vantaggi sono che, a differenza del protocollo lungo, la quantità introdotta di ormoni è molto più bassa. Se la donna non risponde a questo tipo di stimolazione è chiaramente evidente fin da subito che non può produrre ovuli per conto proprio e che, se desidera un figlio, l’unica opzione praticabile è un programma di FIVET che preveda l’ovodonazione.
Dott. Placido Borzì
Resto incinta, che fare degli embrioni sovrannumerari?
La coppia che ricorre alle tecniche di fecondazione assistita firma inizialmente un consenso informato in cui decide se vuole ottenere in quel ciclo un numero di embrioni tale da non averne in esubero in seguito al transfer in utero, oppure se vuole venga prodotto un numero maggiore di embrioni in modo da aumentare le probabilità di successo potendo selezionare gli embrioni migliori. Nel secondo caso è chiaro che il biologo insemina un numero di ovociti elevato che genererà degli embrioni in eccesso rispetto a quelli destinati al transfer, gli embrioni sovrannumerari possono essere congelati e utilizzati in cicli successivi per ottenere un’ulteriore gravidanza o perché il primo tentativo è fallito. Gli embrioni in esubero vengono crioconservati e mantenuti in banche di azoto liquido a -196°C. Il transfer da embrioni scongelati risulta molto semplice e per niente invasivo in quanto la donna non viene sottoposta ad alcuna stimolazione ovarica ne ad alcun intervento chirurgico. Tuttavia accade spesso, che, se la coppia ha già ottenuto una o più gravidanze e non desidera averne altre, pur avendo altri embrioni crioconservati a disposizione, decida di non volerli più. Secondo la legge 40 non si può obbligare una donna a trasferire in utero i suoi embrioni congelati, quindi restano abbandonati ad un destino molto incerto. Ciò ha portato ad avere in Italia ad oggi migliaia di embrioni abbandonati. Per poter lasciare degli embrioni congelati in stato di abbandono, i genitori biologici devono produrre un documento scritto di rinuncia e non risultano più contattabili dalla clinica.
In Italia, a differenza di molti altri stati europei vi è un vuoto legislativo riguardo alle sorti di tali embrioni, quello che è certo è che essi non possono venire utilizzati né a scopo di ricerche scientifiche né possono venire donati a coppie infertili. Affinchè l’embriodonazione possa essere praticata in Italia, gli embrioni dovrebbero essere dichiarati “adottabili” e la legislazione in tal senso non esiste ancora.
Dott.ssa Stefania Luppi
Quale e’ la tecnica migliore per la crioconservazione di ovociti ed embrioni?
La crioconservazione di gameti maschili e femminili ed embrioni è ormai diventata di fondamentale importanza nell’ambito delle procedure di Procreazione Medicalmente Assistita per far fronte alle numerose problematiche che possono presentarsi durante il trattamento dell’infertilità di coppia.
In seguito al prelievo degli ovociti è possibile conservare mediante congelamento gli ovociti maturi prodotti in soprannumero che non verranno utilizzati per la successiva fecondazione in vitro.
Secondo quanto disposto dall’articolo 14 della legge n.40/2004, la crioconservazione degli embrioni è possibile
nel caso in cui si presentino impedimenti imprevisti al trasferimento degli embrioni originati in laboratorio
per limitare i rischi associati alla comparsa di gravidanze gemellari e alla ripetizione di cicli di stimolazione ovarica.
Solitamente gli embrioni vengono congelati al 2-3° giorno dopo la fecondazione, quando si trovano allo stadio di 4-8 cellule, o quando si trovano allo stadio di blastocisti (5°-6° giorno dopo la fecondazione).
Nella maggior parte dei laboratori di embriologia il congelamento degli ovociti e degli embrioni avviene mediante la tecnica di “vitrificazione” che ad oggi è quella che dà i migliori risultati rispetto alla tecnica tradizionalmente impiegata del “congelamento lento”, in quanto offre una maggior efficacia in termini di sopravvivenza degli embrioni e di tasso di impianto, il che significa miglior tasso di gravidanza. A differenza del congelamento classico, la vitrificazione raffredda in maniera estremamente rapida le cellule ad una velocitá di piú di 15.000 °C al minuto, in modo da evitare la formazione di cristalli di ghiaccio che danneggerebbero le strutture interne. Essa prevede l’immersione diretta di ovociti o embrioni in azoto liquido (gas atmosferico che, liquefatto, raggiunge la temperatura di 196 °C sotto lo zero) e l’utilizzo di elevate concentrazioni di sostanze che proteggono dai danni cellulari in minimi volumi. Gli embrioni e gli ovociti possono così restare in azoto liquido fino al loro successivo utilizzo.
Dott.ssa Stefania Luppi
E’ possibile la crioconservazione nei soggetti azoospermici (con eiaculato privo di spermatozoi)?
Nei casi di azoospermia (assenza degli spermatozoi nell’eiaculato), dopo un’attenta anamnesi, una visita andrologica accurata e l’esecuzione dei dosaggi ormonali, talvolta è comunque possibile il recupero dei gameti, con successivo congelamento. In questi casi, bisogna però intervenire chirurgicamente procedendo con il recupero dei gameti direttamente dalle gonadi con aspirazione degli spermatozoi dall’epididimo o dal testicolo. Nei casi di patologia ostruttiva le metodiche chirurgiche garantiscono il recupero di un numero di spermatozoi tale che può essere utilizzato anche in più cicli di procreazione assistita. È bene considerare però che spesso, nei casi di azoospermia, la quantità e la qualità degli spermatozoi recuperati non è adeguata. È quindi possibile, considerata la già citata ridotta capacità degli spermatozoi di sopravvivere al processo di congelamento e scongelamento, non disporre di un campione adeguato per procedere con le tecniche di procreazione medicalmente assistita.
Dott. Alessandro Giuffrida
Quali sono i tempi migliori e le modalità per la crioconservazione degli spermatozoi, garantendo l’integrità del patrimonio genetico?
Per procedere alla crioconservazione degli spermatozoi o gameti maschili bisogna ricordare che una gran parte degli spermatozoi non sopravvive alle metodiche di congelamento e successivo scongelamento. È perciò necessario, se possibile, produrre più campioni di liquido seminale, procedendo ogni volta al recupero degli spermatozoi con normale morfologia e motilità che, successivamente, saranno sottoposti alle metodiche di crioconservazione. Una volta recuperati, i gameti vengono diluiti con sostanze crioprotettrici e sottoposti a temperature progressivamente più basse, da -5° C iniziali fino a -196° C dell’azoto liquido. Lo scongelamento prevede poi l’esposizione dei gameti, precedentemente congelati, a T ambiente per cinque minuti e poi a 37° C per dieci minuti.
In previsione di trattamenti antiblastici, o radioterapici, è necessario eseguire la crioconservazione degli spermatozoi prima dell’inizio del trattamento. In caso vengano usati farmaci che non agiscono sul ciclo cellulare, è possibile crioconservare a distanza di 3 mesi dalla sospensione. Anche per i pazienti normospermici, che sono usciti da poco da stati febbrili o che hanno appena subito una terapia antibiotica, è opportuno fare produrre il campione seminale per la crioconservazione solo dopo un periodo di wash-out.
Dott. Alessandro Giuffrida
Cosa si intende con crioconservazione dei gameti (maschili e femminili)?
Quando parliamo di crioconservazione dei gameti facciamo riferimento a tecniche che consentano la conservazione di cellule in condizioni di “animazione sospesa” all’esterno del corpo. La crioconservazione è una branca della criobiologia, che consente il mantenimento della vitalità cellulare per un tempo prolungato, tramite congelamento a temperatura di –196°C in azoto liquido. Il principio fondamentale è quello di interrompere i processi biochimici del metabolismo cellulare. Lo studio di tali metodiche è iniziato già negli anni ‘30 del Secolo scorso in seguito alle osservazioni di uno scienziato francese, incuriosito dalla capacità di alcuni animali di sopravvivere a basse temperature e dalle modificazioni indotte sul loro metabolismo. Lo sviluppo delle ricerche nel campo della crioconservazione dei gameti è proseguito negli ultimi cinquant’anni, parallelamente al progredire delle metodiche di procreazione medicalmente assistita, ponendo come obiettivo la possibilità, dopo esposizione a bassissime temperature, di riportare i gameti maschili e femminili (spermatozoi e ovociti) a uno stato vitale, con il ripristino delle funzioni fisiologiche. L’evoluzione in campo biologico, le nuove metodiche di congelamento, i nuovi crioprotettori consentono oggi di preservare la fertilità in svariate condizioni, con ottimi risultati in termini di possibilità di gravidanza dopo scongelamento.
Dott. Alessandro Giuffrida
Il problema della futura maternità in una donna con una patologia tumorale, dovrebbe essere tra i primi pensieri in un medico oncologo. Infatti sebbene l’incidenza delle neoplasie maligne raggiunge il picco massimo dopo i 50 anni d’età, ogni anno il tumore maligno viene diagnosticato a molte pazienti giovani ed in età riproduttiva.
Grazie alla prevenzione, alla diagnosi precoce ed alla ricerca la sopravvivenza a lungo termine di questi pazienti è migliorata moltissimo ma un’attenzione sempre crescente deve essere posta sulla qualità di vita di coloro che hanno sconfitto questa malattia. Il tumore e le terapie messe in atto per debellarlo possono infatti compromettere la normale funzionalità delle ovaie e quindi la fertilità delle pazienti.
La donna che ha avuto il cancro, a causa della chemio e della radioterapia, ha un rischio aumentato di avere un precoce esaurimento ovarico, una menopausa precoce per la perdita di patrimonio follicolare, la fibrosi ed un danno vascolare ovarico.
Nonostante l’impatto psicologico devastante provocato dalla diagnosi di tumore il medico non dovrebbe mai dimenticare di affrontare il problema della futura maternità della paziente ed inviarla velocemente presso un centro specializzato nella “preservazione della fertilità“.
Nonostante l’interesse crescente si stima che ben il 30-50% delle donne giovani e fertili affette da neoplasia non vengano correttamente informate ed indirizzate prima di iniziare la chemioterapia.
La valutazione del rischio “infertilità” e quale sia la strategia migliore da metter in atto per ciascuna paziente richiede un a stretta collaborazione tra specialisti: oncologi, ginecologi ed esperti in medicina della riproduzione. Il danno gonadico (alle ovaie) dipende infatti da diversi fattori come il tipo e la dose di chemioterapia e di radioterapia.
Naturalmente la donna non è obbligata ad aderire al protocollo di “fertility preservation” proposto ma deve essere informata sulle possibili strategie disponibili e sulle alternative attualmente a disposizione (come ad esempio ovodonazione ed embrio-donazione).
Esistono attualmente diverse alternative per preservare la fertilità di una donna:
– Congelamento di ovociti o embrioni
– Congelamento di biopsia ovarica con successivo reimpianto o coltura in vitro (in futuro) dei gameti umani (tecnica sperimentale ben lontana dalla pratica clinica)
– Trasposizione ovarica
– Trapianto d’utero
Il tipo di strategia per preservare la fertilità viene pianificato in base a diversi fattori come l’età della donna, il tipo di neoplasia e la conseguente terapia proposta, il tempo a disposizione prima di iniziare la chemioterapia, la presenza di un compagno e se sono presenti delle metastasi a livello delle ovaie.
Crioconservazione ovocitaria o embrionaria
La criopreservazione ovocitaria consiste nella raccolta e nel congelamento degli ovociti non fecondati per un successivo utilizzo con una specifica tecnica di fecondazione assistita chiamata ICSI ed un successivo reimpianto. In modo del tutto analogo la criopreservazione embrionaria consiste nella raccolta degli embrioni ottenuti attraverso la fecondazione degli ovociti, così che possano essere usati per per un successivo impianto.
Per poter congelare e conservare sia gli ovociti che gli embrioni è necessario che la donna si sottoponga ad una stimolazione ormonale per portare a maturazione più follicoli ed avere a disposizione un numero ottimale di ovociti, pronti per essere fecondati.
La crioconservazione può essere proposto in donne in età fertile e se si tratta di pazienti oncologiche, che siano in grado di ritardare l’inizio della terapia chemioterapica di 15-20 giorni. In questo caso, se le pazienti hanno un tumore ormono-sensibile vengono somministrati dei farmaci che bloccano i recettori ormonali per impedire al tumore di trarre “vantaggio” dalla stimolazione ormonale. Inoltre vengono utilizzati protocolli di stimolazione indipendenti dalla fase del ciclo mestruale che permettono di iniziare la terapia in qualsiasi fase del ciclo e di ridurre al minimo il ritardo nell’inizio della chemioterapia.
La strategia attualmente più utilizzata è quella della criopreservazione ovocitaria poiché il congelamento embrionario richiede la presenza di un compagno/marito. Inoltre si presta a potenziali contenziosi giuridici in caso di separazione o decesso di uno dei due coniugi.
Attraverso il congelamento, gli ovociti o gli embrioni possono essere riutilizzati dalla paziente qualora ne avesse la necessità e non riuscisse a procreare spontaneamente, senza avere un limite temporale.
Criopreservazione di biopsia ovarica
Questa tecnica consiste nel congelamento del tessuto ovarico per poi effettuare il reimpianto dopo un trattamento antiblastico.
Si tratta di una metodica ancora sperimentale, che quindi necessita di ulteriori studi clinici per essere validata e ottimizzata ma offre importanti prospettive sia perché permette la conservazione della funzionalità riproduttiva e dell’attività steroidogenica cioè di produrre steroidi, tra cui gli ormoni sessuali. Un ulteriore vantaggio è che non richiede né stimolazione ormonale né la presenza di un partner.
La criopreservazione di biopsia ovarica potrebbe essere proposta a donne pre-pubere, che quindi non posso effettuare una crioconservazione degli ovociti, e nei casi di pazienti oncologiche in cui non sia possibile ritardare l’inizio della chemioterapia. E’ invece controindicata in caso di neoplasia con un elevato rischio di metastasi ovariche.
Questa tecnica è realizzata attraverso un intervento chirurgico in laparoscopia in cui viene asportato un frammento di corticale ovarica, con una biopsia ovarica, o un intero ovaio. Il successo della metodica è strettamente legato alla quantità di materiale ovarico che la donna possiede al momento del prelievo.
I frammenti ovarici asportati in questa prima fase possono essere congelati per un periodo illimitato per poi venir re-impiantati a livello ovarico con reimpianto ortotopico o in posizioni distanti dalle ovaie, in cui il reimpianto eterotopico viene effettuato ad esempio nell’addome, nell’avambraccio, o al seno.
Sebbene la funzione endocrinologica delle ovaie riprenda in modo corretto sia in caso di un reimpianto a livello delle ovaie che in posizioni distanti, le gravidanze che si sono verificate sono ottenute solo con reimpianto ortotopico.
La durata media del tessuto ri-trapiantato è di circa 5 anni pertanto possono essere necessari reimpianti successivi e consecutivi.
Le donne che hanno subito l’asportazione dell’intero ovaio mostrano un numero significativo di gravidanze spontanee, tuttavia l’asportazione dell’intero ovaio è un approccio molto aggressivo e può essere esso stesso causa di riduzione della riserva ovarica.
Un’altra, futuribile modalità di utilizzo del tessuto ovarico scongelato è quella della maturazione in vitro degli ovociti. Questa tecnica non è ancora standardizzata e perciò non ancora applicabile; ma molti centri di ricerca in tutto il mondo stanno lavorando in questo settore, e la speranza è che in tempi brevi si possa giungere ad una applicazione clinica. In buona sostanza, utilizzando un solo frammento di tessuto ovarico ed isolando i follicoli primordiali (pre-antrali ed antrali) in esso contenuti, si potranno ottenere in laboratorio molti ovociti maturi, successivamente impiegabili in tecniche di fecondazione assistita: a quel punto, il tessuto ovarico prelevato diventerebbe veramente una ‘banca’ di ovociti maturi per la persona.
Il vantaggio di questa tecnica è che il processo avviene completamente in vitro senza necessità di stimolazione ormonale alla donna.
Inoltre verrebbero reimpiantati nella paziente solo embrioni ( che non contengono cellule somatiche della madre) riducendo a zero il rischio di re-introdurre cellule tumorali all’interno della paziente ricevente.
Trasposizione ovarica
La trasposizione ovarica è una tecnica chirurgica che consiste nello spostare le ovaie il più possibile lontano dal campo di irradiazione, in modo da preservare questi tessuti dall’azione della radioterapia che altrimenti potrebbe danneggiare la fertilità. La trasposizione ovarica è infatti una metodica rivolta a donne in età fertile che devono sottoporsi a irradiazione pelvica.
Se nel trattamento primario del tumore non è stata effettuata una laparotomia, la metodica di trasposizione può essere svolta con una semplice laparoscopia. Con questa metodica le ovaie vengono mobilizzate e posizionate il più alto possibile fuori dalla pelvi, solitamente a livello addominale nelle logge paracoliche. Inoltre nello stesso intervento è anche possibile effettuare un prelievo di corteccia ovarica per la criopreservazione.
Poiché le ovaie possono spostarsi, la trasposizione ovarica è una procedura che deve essere eseguita quanto più possibile vicino al momento del trattamento d’irradiazione, in questo modo la probabilità che si riposizioni nella zona irradiata sarà bassa. Il successo della metodica è correlato con l’età della paziente, diminuendo con l’aumento di età della donna.
Trapianto dell’utero
Questa metodica prevede il trapianto da una donatrice ad una donna ricevente ed è adatta per pazienti che hanno dovuto subire un’asportazione uterina per una patologia come un tumore o una grave emorragia, o per donne nate con un’assenza congenita dell’utero, come per le pazienti con Sindrome di Rokitansky.
Il trapianto dell’utero è ancora una tecnica sperimentale che è stata eseguita poche volte nel mondo e si è concluso per la prima volta con successo, con la nascita di un maschietto sano a fine 2014. È accaduto in Svezia, dove una donna di 35 anni ha partorito con taglio cesareo suo figlio, dopo aver subito, un trapianto dell’utero grazie alla donazione di una sessantenne.
Per effettuare un trapianto d’utero è necessaria una donatrice che ha terminato il desiderio di prole a cui viene praticata un’ isterectomia fatta in modo da preservare l’integrità dell’organo. L’utero viene così impiantato nella ricevente. La ricevente conserva perciò le proprie ovaie che sono collegate all’utero donato e che con il passare dei giorni riacquista le sue normali funzioni fino ad avere un normale ciclo mestruale.
Naturalmente la paziente, come in tutti gli allotrapianti, deve sottoporsi a terapia immunosoppressiva importante al fine di evitare un rigetto dell’organo.