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Dalla parte della donna: quali sono le possibilità offerte dalla crioconservazione per preservare la fertilità femminile?

La metodiche di preservazione della fertilità della donna comprendono oggi diverse modalità, oltre alla criocoservazione degli ovociti, a seconda delle necessità della paziente stessa. È infatti possibile ricorrere al congelamento del tessuto ovarico, dell’intero ovaio o degli embrioni. Anche lo stesso congelamento degli ovociti può avvenire attraverso tecniche di raffreddamento lento o rapido. Il congelamento lento prevede che gli ovociti, opportunamente trattati, vengano trasferiti in un congelatore biologico e successivamente immersi in azoto liquido, per portarli alla temperatura di -196° C.

Lo scongelamento invece deve essere eseguito molto velocemente, circa 8 minuti, per evitare all’interno della cellula la formazione di cristalli di ghiaccio, che determinerebbero la rottura delle membrane cellulari, con danno irreversibile delle cellule. Per evitare i rischi di alterazione delle strutture cellulari durante il processo di congelamento e scongelamento lento, negli ultimi anni è stata sviluppata una nuova tecnica di congelamento rapido detta vitrificazione. Il trattamento consiste nel portare l’ovocita a -196° saltando i passaggi intermedi. Il rapido e brusco abbassamento delle temperature induce il passaggio della cellula dallo stato acquoso a quello vitreo, senza formazione di cristalli di ghiaccio.
Per quel che riguarda il congelamento di tessuto ovarico, o dell’intero ovaio, è necessario sottoporsi a due interventi chirurgici: nel primo si procederà alla rimozione del tessuto, o dell’ovaio e, nel secondo si procederà al reimpianto, nella stessa sede (ortotopico), o in sede diversa, per esempio l’avambraccio (eterotopico). A distanza di un periodo di circa 4 mesi, necessari a ripristinare l’irrorazione sanguigna del tessuto reimpiantato, si può procedere con le terapie di induzione della crescita follicolare multipla.
La crioconservazione degli embrioni, infine, prevede l’esecuzione di una tecnica Fivet o Icsi: si inizia con una terapia di stimolazione, seguito da un pick-up (prelievo) ovocitario in sedazione, poi da un procedimento di fertilizzazione in vitro e di successivo congelamento. Pur essendo la metodica che offre maggiori percentuali di gravidanza, data la maggiore resistenza degli embrioni ai processi di congelamento e successivo scongelamento, può però determinare il manifestarsi di controversie etico-legali, in caso di separazione dei partner successiva al loro ottenimento.

Dott. Alessandro Giuffrida

La procedura di crioconservazione nella donna presuppone tempi più lunghi rispetto all’uomo. Perché?

Il primo imprescindibile step per poter procedere alla crioconservazione nella donna è il recupero dei gameti, quindi ovociti per la donna e spermatozoi per l’uomo. Una parte dei gameti, sia maschili sia femminili, una volta sottoposti al processo di congelamento e scongelamento non è più vitale: è perciò necessario, per procedere con tali tecniche, disporre di un “pool” di gameti. Per l’uomo è sufficiente produrre uno o più campioni di liquido seminale; poiché invece la donna produce generalmente un singolo ovocita per ciclo e visto che i gameti non sono prodotti all’esterno del corpo, la raccolta dei gameti femminili prevede diverse fasi.
Innanzitutto è necessario sottoporsi a una terapia di stimolazione ormonale, che ha durata variabile a seconda del tipo di protocollo di induzione della crescita follicolare multipla, che è scelto dallo specialista alla luce di una serie di accertamenti preliminari all’inizio del trattamento. Questa terapia è necessaria per produrre un numero maggiore di ovociti: la paziente si sottopone a ecografie e dosaggi ormonali per valutare il tipo di risposta alla terapia stessa e attuare eventuali modifiche che ottimizzino il risultato. Quando i follicoli hanno raggiunto dimensioni di circa 18-20 mm viene effettuato il prelievo ovocitario (pick-up). Quest’ultimo consiste in un’aspirazione del liquido follicolare direttamente dalle ovaie, ecoguidata per via transvaginale. Tale fluido follicolare viene poi osservato al microscopio da biologi esperti nell’ambito della riproduzione che, una volta recuperati gli ovociti, li sottoporranno alle tecniche di congelamento.

Dott. Alessandro Giuffrida

Perché si preferiscono alcune tecniche di crioconservazione degli ovociti, piuttosto che degli embrioni?

Sino a pochi anni fa le metodiche di crioconservazione considerate efficaci erano solo quelle limitate a spermatozoi ed embrioni, dal momento che i tassi di sopravvivenza degli ovociti e le percentuali di gravidanza dopo scongelamento ovocitario erano significativamente più basse.

Con il progressivo miglioramento sia delle metodiche di crioconservazione sia delle sostanze crioprotettrici, il management delle pazienti infertili continua a modificarsi. Bisogna considerare che le metodiche di riproduzione assistita si prestano a possibili scenari etici di difficile risoluzione. Supponiamo per esempio il caso in cui una coppia si sottoponga a un ciclo di fecondazione assistita con congelamento di embrioni. Sia dopo fallimento del ciclo di procreazione assistita sia in caso di esito favorevole, qualora si disponga di embrioni congelati, cosa ne sarà degli embrioni nel caso in cui la coppia decidesse di separarsi o di non avere ulteriori gravidanze? Chi ne potrà disporre? Nonostante ciò che dice la legge, e cioè che la donna può disporre degli embrioni congelati senza il consenso del partner, può questo essere considerato eticamente corretto? Certamente, disporre di gameti invece che di embrioni consente di evitare dibattiti sia etici sia legali. Le percentuali di sopravvivenza nei cicli con congelamento dei gameti sono attualemente crescenti: al fine di evitare le possibili implicazioni correlate al congelamento e alla “conservazione” embrionaria, nonché all’eventuale smaltimento di embrioni sovrannumerari, è verosimile pensare che la medicina della riproduzione si orienterà sempre di più verso la conservazione dei gameti piuttosto che degli embrioni.

Dott. Alessandro Giuffrida

Coltura

 

Chi, dove e in che modo si prende cura degli embrioni in attesa del transfer?

Gli embrioni formati dall’unione degli ovociti con gli spermatozoi sono estremamente sensibili. L’operatore per eccellenza che se ne prende cura è l’embriologo. Il suo compito è fondamentalmente quello di minimizzare gli stress causati agli embrioni dalla coltura “in vitro”, ovvero fuori dall’ambiente naturale, agendo proprio sull’ambiente esterno.

Gli embrioni “in vitro” sono mantenuti in piastre contenenti dei terreni liquidi nutritivi. Ogni paziente ha la propria piastra contrassegnata con il proprio codice identificativo. Gli embrioni, nelle piastre, possono essere messi in coltura singolarmente in gocce o in gruppo nella stessa goccia. Ogni laboratorio ha per la coltura i propri protocolli standardizzati e validati. I terreni contengono nello specifico: Acqua ultrapura, Aminoacidi, Sali inorganici, Nutrienti (glucosio, piruvato, lattato), Antibiotici e Albumina Umana.

Le piastre con gli embrioni sono riposte all’interno degli incubatori, ovvero dei contenitori che mimano l’utero materno: la temperatura all’interno deve essere costante a 37°C e l’atmosfera deve avere il 5/6% di CO2.

E’ fondamentale che per assicurare una crescita ottimale degli embrioni, gli embriologi controllino che non vi siano, durante tutti gli stadi di sviluppo, eccessive variazioni di: Temperatura, pH (garantito dall’atmosfera), nutrienti.

Non da meno esposizioni prolungate alla luce ed ad alti livelli di O2 devono essere assolutamente evitate per non compromettere la buona crescita degli embrioni.

 

Con quali tempistiche crescono gli ovociti fecondati?

Lo sviluppo dell’embrione, che prevede la formazione di più cellule, chiamate blastomeri, coinvolge una serie di divisioni dell’ovocita fecondato.

Una regolare crescita a 2 cellule è osservata a 22-24 ore dall’inseminazione, una crescita a 4 cellule è osservata attorno alle 36-50 ore ed infine una crescita a 8 cellule viene osservata a 72 ore. Le cellule continuano ad essere ben definite e facilmente valutabili fino allo stadio di 10-12 cellule. A partire dalla quarta giornata dopo l’inseminazione l’embrione inizia a compattarsi per dare origine alla morula. Passati 5 o 6 giorni dall’inseminazione, l’embrione raggiunge lo stadio di blastocisti, in cui sono presenti circa 200 cellule.

 

Gli embrioni che si formano da un pool di ovociti di una stessa paziente, crescono tutti contemporaneamente dopo l’inseminazione?

Non è automatico che un pool di ovociti di una stessa paziente, una volta inseminati, dia origine ad embrioni che crescano contemporaneamente alla stessa velocità. Ci possono essere embrioni più veloci, più lenti ed embrioni che si arrestano durante la crescita. Questa differenza nello sviluppo può essere determinata da diversi fattori non solo di natura genetica, ma anche ambientali.

L’utilizzo di sofisticate tecnologie in grado di monitorare la crescita degli embrioni, ha permesso di definirlo come un’identità dinamica e soggetta a variazioni continue. Il grado di plasticità degli embrioni sembra essere una loro caratteristica intrinseca condizionata dai meccanismi di divisioni cellulari, dalla qualità del citoplasma ovocitario, dall’allineamento dei pronuclei e dalle condizioni nutritive in vitro.

Come vengono valutati gli embrioni?

I fattori più importanti della valutazione morfologica degli embrioni sono: il numero di cellule, la percentuale di frammentazioni, l’uniformità nella dimensione delle cellule e la simmetria nella disposizione delle stesse. Fondamentale è sottolineare che non esiste una diretta correlazione tra la valutazione morfologica e la percentuale di successo del trattamento: una perfetta morfologia non è sinonimo di gravidanza, così come una morfologia scadente non è sinonimo di fallimento di gravidanza.  Intervengono infatti molteplici fattori oltre alla qualità dell’embrione come i livelli ormonali, lo spessore dell’endometrio e altre condizioni fisiologiche della paziente.

Dott.ssa Zicchina

Resto incinta, che fare degli embrioni sovrannumerari?

 

La coppia che ricorre alle tecniche di fecondazione assistita firma inizialmente un consenso informato in cui decide se vuole ottenere in quel ciclo un numero di embrioni tale da non averne in esubero in seguito al transfer in utero, oppure se vuole venga prodotto un numero maggiore di embrioni in modo da aumentare le probabilità di successo potendo selezionare gli embrioni migliori. Nel secondo caso è chiaro che il biologo insemina un numero di ovociti elevato che genererà degli embrioni in eccesso rispetto a quelli destinati al transfer, gli embrioni sovrannumerari possono essere congelati e utilizzati in cicli successivi per ottenere un’ulteriore gravidanza o perché il primo tentativo è fallito. Gli embrioni in esubero vengono crioconservati e mantenuti in banche di azoto liquido a -196°C. Il transfer da embrioni scongelati risulta molto semplice e per niente invasivo in quanto la donna non viene sottoposta ad alcuna stimolazione ovarica ne ad alcun intervento chirurgico. Tuttavia accade spesso, che, se la coppia ha già ottenuto una o più gravidanze e non desidera averne altre, pur avendo altri embrioni crioconservati a disposizione, decida di non volerli più. Secondo la legge 40 non si può obbligare una donna a trasferire in utero i suoi embrioni congelati, quindi restano abbandonati ad un destino molto incerto. Ciò ha portato ad avere in Italia ad oggi migliaia di embrioni abbandonati. Per poter lasciare degli embrioni congelati in stato di abbandono, i genitori biologici devono produrre un documento scritto di rinuncia e non risultano più contattabili dalla clinica.

In Italia, a differenza di molti altri stati europei vi è un vuoto legislativo riguardo alle sorti di tali embrioni, quello che è certo è che essi non possono venire utilizzati né a scopo di ricerche scientifiche né possono venire donati a coppie infertili. Affinchè l’embriodonazione possa essere praticata in Italia, gli embrioni dovrebbero essere dichiarati “adottabili” e la legislazione in tal senso non esiste ancora.

Dott.ssa Stefania Luppi

Quale e’ la tecnica migliore per la crioconservazione di ovociti ed embrioni?

La crioconservazione di gameti maschili e femminili ed embrioni è ormai diventata di fondamentale importanza nell’ambito delle procedure di Procreazione Medicalmente Assistita per far fronte alle numerose problematiche che possono presentarsi durante il trattamento dell’infertilità di coppia.

In seguito al prelievo degli ovociti è possibile conservare mediante congelamento gli ovociti maturi prodotti in soprannumero che non verranno utilizzati per la successiva fecondazione in vitro.

Secondo quanto disposto dall’articolo 14 della legge n.40/2004, la crioconservazione degli embrioni è possibile

  1. nel caso in cui si presentino impedimenti imprevisti al trasferimento degli embrioni originati in laboratorio
  2. per limitare i rischi associati alla comparsa di gravidanze gemellari e alla ripetizione di cicli di stimolazione ovarica.

Solitamente gli embrioni vengono congelati al 2-3° giorno dopo la fecondazione, quando si trovano allo stadio di 4-8 cellule, o quando si trovano allo stadio di blastocisti (5°-6° giorno dopo la fecondazione).

Nella maggior parte dei laboratori di embriologia il congelamento degli ovociti e degli embrioni avviene mediante la tecnica di “vitrificazione” che ad oggi è quella che dà i migliori risultati rispetto alla tecnica tradizionalmente impiegata del “congelamento lento”, in quanto offre una maggior efficacia in termini di sopravvivenza degli embrioni e di tasso di impianto, il che significa miglior tasso di gravidanza.  A differenza del congelamento classico, la vitrificazione raffredda in maniera estremamente rapida le cellule ad una velocitá di piú di 15.000 °C al minuto, in modo da evitare la formazione di cristalli di ghiaccio che danneggerebbero le strutture interne. Essa prevede l’immersione diretta di ovociti o embrioni in azoto liquido (gas atmosferico che, liquefatto, raggiunge la temperatura di 196 °C sotto lo zero) e l’utilizzo di elevate concentrazioni di sostanze che proteggono dai danni cellulari in minimi volumi. Gli embrioni e gli ovociti possono così restare in azoto liquido fino al loro successivo utilizzo.

Dott.ssa Stefania Luppi 

Controllo della fertilità in paziente oncologicaIl problema della futura maternità in una donna con una patologia tumorale, dovrebbe essere tra i primi pensieri in un medico oncologo. Infatti sebbene l’incidenza delle neoplasie maligne raggiunge il picco massimo dopo i 50 anni d’età, ogni anno il tumore maligno viene diagnosticato a molte pazienti giovani ed in età riproduttiva.

Grazie alla prevenzione, alla diagnosi precoce ed alla ricerca la sopravvivenza a lungo termine di questi pazienti è migliorata moltissimo ma un’attenzione sempre crescente deve essere posta sulla qualità di vita di coloro che hanno sconfitto questa malattia. Il tumore e le terapie messe in atto per debellarlo possono infatti compromettere la normale funzionalità delle ovaie e quindi la fertilità delle pazienti.
La donna che ha avuto il cancro, a causa della chemio e della radioterapia, ha un rischio aumentato di avere un precoce esaurimento ovarico, una menopausa precoce per la perdita di patrimonio follicolare, la fibrosi ed un danno vascolare ovarico.

Nonostante l’impatto psicologico devastante provocato dalla diagnosi di tumore il medico non dovrebbe mai dimenticare di affrontare il problema della futura maternità della paziente ed inviarla velocemente presso un centro specializzato nella “preservazione della fertilità“.
Nonostante l’interesse crescente si stima che ben il 30-50% delle donne giovani e fertili affette da neoplasia non vengano correttamente informate ed indirizzate prima di iniziare la chemioterapia.
La valutazione del rischio “infertilità” e quale sia la strategia migliore da metter in atto per ciascuna paziente richiede un a stretta collaborazione tra specialisti: oncologi, ginecologi ed esperti in medicina della riproduzione. Il danno gonadico (alle ovaie) dipende infatti da diversi fattori come il tipo e la dose di chemioterapia e di radioterapia.

Naturalmente la donna non è obbligata ad aderire al protocollo di “fertility preservation” proposto ma deve essere informata sulle possibili strategie disponibili e sulle alternative attualmente a disposizione (come ad esempio ovodonazione ed embrio-donazione).

Esistono attualmente diverse alternative per preservare la fertilità di una donna:
Congelamento di ovociti o embrioni
Congelamento di biopsia ovarica con successivo reimpianto o coltura in vitro (in futuro) dei gameti umani (tecnica sperimentale ben lontana dalla pratica clinica)
Trasposizione ovarica
Trapianto d’utero

Il tipo di strategia per preservare la fertilità viene pianificato in base a diversi fattori come l’età della donna, il tipo di neoplasia e la conseguente terapia proposta, il tempo a disposizione prima di iniziare la chemioterapia, la presenza di un compagno e se sono presenti delle metastasi a livello delle ovaie.

Crioconservazione ovocitaria o embrionaria

Crioconservazione ovocitiLa criopreservazione ovocitaria consiste nella raccolta e nel congelamento degli ovociti non fecondati per un successivo utilizzo con una specifica tecnica di fecondazione assistita chiamata ICSI  ed un successivo reimpianto. In modo del tutto analogo la criopreservazione embrionaria consiste nella raccolta degli embrioni ottenuti attraverso la fecondazione degli ovociti, così che possano essere usati per per un successivo impianto.
Per poter congelare e conservare sia gli ovociti che gli embrioni è necessario che la donna si sottoponga ad una stimolazione ormonale per portare a maturazione più follicoli ed avere a disposizione un numero ottimale di ovociti, pronti per essere fecondati.

La crioconservazione può essere proposto in donne in età fertile e se si tratta di pazienti oncologiche, che siano in grado di ritardare l’inizio della terapia chemioterapica di 15-20 giorni. In questo caso, se le pazienti hanno un tumore ormono-sensibile vengono somministrati dei farmaci che bloccano i recettori ormonali per impedire al tumore di trarre “vantaggio” dalla stimolazione ormonale. Inoltre vengono utilizzati protocolli di stimolazione indipendenti dalla fase del  ciclo mestruale che permettono di iniziare la terapia in qualsiasi fase del ciclo e di ridurre al minimo il ritardo nell’inizio della chemioterapia.

La strategia attualmente più utilizzata è quella della criopreservazione ovocitaria poiché il congelamento embrionario richiede la presenza di un compagno/marito. Inoltre si presta a potenziali contenziosi giuridici in caso di separazione o decesso di uno dei due coniugi.
Attraverso il congelamento, gli ovociti o gli embrioni possono essere riutilizzati dalla paziente qualora ne avesse la necessità e non riuscisse a procreare spontaneamente, senza avere un limite temporale.

Criopreservazione di biopsia ovarica

Questa tecnica consiste nel congelamento del tessuto ovarico per poi effettuare il reimpianto dopo un trattamento antiblastico.
Si tratta di una metodica ancora sperimentale, che quindi necessita di ulteriori studi clinici per essere validata e ottimizzata ma offre importanti prospettive sia perché permette la conservazione della funzionalità riproduttiva e dell’attività steroidogenica cioè di produrre steroidi, tra cui gli ormoni sessuali. Un ulteriore vantaggio è che non richiede né stimolazione ormonale né la presenza di un partner.

La criopreservazione di biopsia ovarica potrebbe essere proposta a donne pre-pubere, che quindi non posso effettuare una crioconservazione degli ovociti, e nei casi di pazienti oncologiche in cui non sia possibile ritardare l’inizio della chemioterapia. E’ invece controindicata in caso di neoplasia con un elevato rischio di metastasi ovariche.

Questa tecnica è realizzata attraverso un intervento chirurgico in laparoscopia in cui viene asportato un frammento di corticale ovarica, con una biopsia ovarica, o  un intero ovaio. Il successo della metodica è strettamente legato alla quantità di materiale ovarico che la donna possiede al momento del prelievo.
Laparoscopia I frammenti ovarici asportati in questa prima fase possono essere congelati per un periodo illimitato per poi venir re-impiantati a livello ovarico con reimpianto ortotopico o in posizioni distanti dalle ovaie, in cui il reimpianto eterotopico viene effettuato ad esempio nell’addome, nell’avambraccio, o al seno.

Sebbene la funzione endocrinologica delle ovaie riprenda in modo corretto sia in caso di un reimpianto a livello delle ovaie che in posizioni distanti, le gravidanze che si sono verificate sono ottenute solo con reimpianto ortotopico.
La durata media del tessuto ri-trapiantato è di circa 5 anni pertanto possono essere necessari reimpianti successivi e consecutivi.
Le donne che hanno subito l’asportazione dell’intero ovaio mostrano un numero significativo di gravidanze spontanee, tuttavia l’asportazione dell’intero ovaio è un approccio molto aggressivo e può essere esso stesso causa di riduzione della riserva ovarica.

Un’altra, futuribile modalità di utilizzo del tessuto ovarico scongelato è quella della maturazione in vitro degli ovociti. Questa tecnica non è ancora standardizzata e perciò non ancora applicabile; ma molti centri di ricerca in tutto il mondo stanno lavorando in questo settore, e la speranza è che in tempi brevi si possa giungere ad una applicazione clinica. In buona sostanza, utilizzando un solo frammento di tessuto ovarico ed isolando i follicoli primordiali (pre-antrali ed antrali) in esso contenuti, si potranno ottenere in laboratorio molti ovociti maturi, successivamente impiegabili in tecniche di fecondazione assistita: a quel punto, il tessuto ovarico prelevato diventerebbe veramente una ‘banca’ di ovociti maturi per la persona.

Il vantaggio di questa tecnica è che il processo avviene completamente in vitro senza necessità di stimolazione ormonale alla donna.
Inoltre verrebbero  reimpiantati nella paziente solo embrioni ( che non contengono cellule somatiche della madre) riducendo a zero il rischio di re-introdurre cellule tumorali all’interno della paziente ricevente.

Trasposizione ovarica

La trasposizione ovarica è una tecnica chirurgica che consiste nello spostare le ovaie il più possibile lontano dal campo di irradiazione, in modo da preservare questi tessuti dall’azione della radioterapia che altrimenti potrebbe danneggiare la fertilità. La trasposizione ovarica è infatti una metodica rivolta a donne in età fertile che devono sottoporsi a irradiazione pelvica.
Se nel trattamento primario del tumore non è stata effettuata una laparotomia, la metodica di trasposizione può essere svolta con una semplice laparoscopia. Con questa metodica le ovaie vengono mobilizzate e posizionate il più alto possibile fuori dalla pelvi, solitamente a livello addominale nelle logge paracoliche. Inoltre nello stesso intervento è anche possibile effettuare un prelievo di corteccia ovarica per la criopreservazione.
Poiché le ovaie possono spostarsi, la trasposizione ovarica è una procedura che deve essere eseguita quanto più possibile vicino al momento del trattamento d’irradiazione, in questo modo la probabilità che si riposizioni nella zona irradiata sarà bassa. Il successo della metodica è correlato con l’età della paziente, diminuendo con l’aumento di età della donna.

 

Trapianto dell’utero

shutterstock_173299247Questa metodica prevede il trapianto da una donatrice ad una donna ricevente ed è adatta per pazienti che hanno dovuto subire un’asportazione uterina per una patologia come un tumore o una grave emorragia, o per donne nate con un’assenza congenita dell’utero, come per le pazienti con Sindrome di Rokitansky.
Il trapianto dell’utero è ancora una tecnica sperimentale che è stata eseguita poche volte nel mondo e si è concluso per la prima volta con successo, con la nascita di un maschietto sano a fine 2014. È accaduto in Svezia, dove una donna di 35 anni ha partorito con taglio cesareo suo figlio, dopo aver subito, un trapianto dell’utero grazie alla donazione di una sessantenne.

Per effettuare un trapianto d’utero è necessaria una donatrice che ha terminato il desiderio di prole a cui viene praticata un’ isterectomia fatta in modo da preservare l’integrità dell’organo. L’utero viene così impiantato nella ricevente. La ricevente conserva perciò le proprie ovaie che sono collegate all’utero donato e che con il passare dei giorni riacquista le sue normali funzioni fino ad avere un normale ciclo mestruale.
Naturalmente la paziente, come in tutti gli allotrapianti, deve sottoporsi a terapia immunosoppressiva importante al fine di evitare un rigetto dell’organo.

Leggi a chi rivolgersi per preservare la fertilità.

Articolo realizzato con il contributo scientifico della Dott.ssa Paola Persico – Medico chirurgo specialista in Ostetricia e Ginecologia.