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In cosa consiste?

L’ovocita al momento del prelievo ovocitario è circondato da un insieme di cellule dette cellule della granulosa e del cumulo ooforo. Prima di effettuare la ICSI (iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo) è necessario denudare l’ovocita, eliminando questo gruppo di cellule con un processo che si chiama “decumulazione”. Al termine di tale procedura, l’ovocita si presenta come una sfera contornata da una pellicola protettiva detta “zona pellucida” che rimarrà anche successivamente alla fecondazione fino al quinto-sesto giorno di vita dell’embrione. Tra il quinto e il sesto giorno dopo la fecondazione ha inizio infatti il processo di annidamento dell’embrione, durante il quale la zona pellucida si assottiglia sempre di più fino a permettere all’embrione al suo interno (in questa fase detto blastocisti) di sgusciare al di fuori di tale barriera (processo che avviene spontaneamente anche in vitro) e prendere contatto diretto con le cellule della mucosa uterina.

Tra le cause di ripetuti fallimenti di impianto in coppie sottoposte a fecondazione assistita ritroviamo l’incapacità dell’embrione di sgusciare spontaneamente dalla zona pellucida o l’alterazione della pellicola stessa (la zona si può presentare spessa e indurita).

Questo processo si aiuta assottigliando o bucando con il laser o con un ago speciale o con determinate sostanze proprio il guscio dell’embrione (assisted hatching o hatching assistito) poco prima del transfer per facilitare l’impianto dell’embrione alla parete uterina.

Quando può essere utile?

L’hatching assistito è dunque consigliabile nei casi di ripetuti fallimenti di impianto embrionario, nelle donne più mature i cui ovociti presentano una zona pellucida più spessa, negli embrioni scongelati o ottenuti da ovociti scongelati in quanto il processo di congelamento può provocare un’irrigidimento della zona pellucida.

Dott.ssa Stefania Luppi

Qual è la differenza tra PGD (Diagnosi genetica pre-impianto) e PGS (Screening genetico pre-impianto)?

Prima di trasferire gli embrioni nell’utero della paziente, essi vengono analizzati sia dal punto di vista morfologico che di crescita. Alcuni centri, effettuano inoltre un’analisi del loro corredo genetico mediante le tecniche di diagnosi genetica preimpianto (PGD). Tale diagnosi fornisce quindi un ulteriore criterio di scelta degli embrioni idonei all’ottenimento di una gravidanza. Chiaramente, ogni coppia che si affida alla procreazione medicalmente assistita spera di riuscire ad avere dei figli sani. A volte però vi è il rischio di trasmettere alla prole un difetto genetico di cui uno dei due genitori o entrambi sono affetti. La diagnosi genetica preimpianto consente di esaminare il corredo genetico dell’embrione ancor prima della gravidanza in maniera tale da permettere, in un ciclo di fecondazione in vitro, il transfer preferenziale degli embrioni geneticamente normali. Vi sono due tecniche di diagnosi preimpianto: la PGS (screening genetico preimpianto) ­­­ e la PGD (diagnosi genetica preimpianto).

La PGS analizza il corredo cromosomico dell’embrione nella sua interezza valutando alterazioni di numero o di struttura dei cromosomi, ed è quindi particolarmente indicata nei casi di età materna avanzata (>38 anni), abortività ricorrente e ripetuti fallimenti di impianto.

La PGD è indicata nel caso in cui uno od entrambi i futuri genitori siano portatori o affetti da un disordine genetico causato dalla mancanza o mutazione in un unico gene (malattia monogenica), come la beta talassemia, la fibrosi cistica o l’emofilia. Quindi si va a ricercare quella specifica alterazione.

L’indagine genetica viene fatta su uno o più blastomeri prelevati dall’embrione allo stadio di 6/8 cellule (a circa 72 ore dal momento della fecondazione), o allo stadio di blastocisti (a circa 120 ore dalla fecondazione). L’analisi si realizza con più metodi – FISH (ibridazione fluorescente in situ), ACGH (ibridazione genomica comparativa su microarray), PCR (reazione a catena della polimerasi) e il risultato viene elaborato in circa 48 ore. L’embrione non risulta danneggiato, pertanto continua nel suo sviluppo. In base ai risultati ottenuti, il biologo seleziona gli embrioni più adatti per il trasferimento in cavità uterina nel caso di diagnosi a 72 ore, nel caso invece di diagnosi a blastocisti queste vengono congelate in attesa dei risultati e trasferite in un ciclo successivo.

Dott.ssa Stefania Luppi

Desidero tanto diventare madre ma ho un grande problema: sono portatrice di una malattia genetica, la fibrosi cistica, che potrei trasmettere a mio figlio. Certe volte penso a “lui” nelle mie condizioni e mi chiedo se mai sarebbe felice di condurre un’esistenza come la mia.

Dovrebbe imparare a convivere con la mia malattia, accettarne le limitazioni e sottoporsi a cure e trattamenti per tutta la durata della sua vita, che non sarebbe poi così lunga. Sarebbe costellata di medicine e persone in camice bianco, che consiglierebbero, che raccomanderebbero, che indirizzerebbero. Dovrebbe poi abituarsi a cercare tra gli innumerevoli sguardi di falso pietismo e misto compatimento, quelli rari ma lucenti della vera amicizia.

Potrebbe essere felice, però, come lo sono stata io fino ad ora. Ed anche fortunato, se incontrasse un tesoro di persona con cui vivere la propria vita, come è successo a me, quando ho conosciuto mio marito.

Ma io, senza tutto l’aiuto che ricevo ogni giorno, potrei mai crescere un figlio? E un figlio con i miei stessi problemi? Vorrei tanto avere un figlio sano, e per me crescerlo, credo, sarebbe già un’impresa titanica, una sfida.

Quando ne parlo con mio marito, lui si fa pensieroso e mi dice che non desidera altro nella vita se non diventare padre e potersi dedicare alla crescita di un figlio. Mi ha detto però che non si sente di correre ed accettare il rischio di procreare un figlio che potrebbe essere non sano, come del resto credo si augurino tutte le coppie del mondo. Mio marito sostiene che, laddove noi tentassimo la sorte, e poi scoprissimo, dopo aver eseguito esami come la villocentesi o l’amniocentesi, la presenza di malattie genetiche nel feto, dovremmo interrompere la gravidanza al più tardi entro la 16° settimana commettendo il cosiddetto aborto terapeutico.

Dopo lunghe riflessioni, attualmente mio marito ed io stiamo pensando di procreare tramite la fecondazione assistita e fare una diagnosi  preimpianto dell’embrione generato in vitro per identificare la presenza di malattie genetiche e di alterazioni cromosomiche. Questo ci consentirebbe di evitare di compiere un dolorosissimo aborto al terzo mese di gravidanza e di vivere con ansia e terrore i primi mesi in attesa di un verdetto fatidico.