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I dati del Ministero della Salute parlano chiaro: in Italia, l’età media dell’accesso alla PMA è più elevata rispetto a quella degli altri Paesi europei. Per le donne si attesta attorno ai 36.5 anni, contro i 34.7 del resto d’Europa, per gli uomini ai 40 anni circa. L’età è un fattore-chiave in grado di interferire con la capacità di procreare in modo naturale, sia nella donna, sia nell’uomo. Nel sesso femminile, infatti, i 35 anni rappresentano un po’ il punto di svolta della riserva ovarica, vale a dire della quantità e della qualità degli ovociti; in quello maschile, che pure conserva la spermatogenesi (la capacità di produrre spermatozoi) fino alla tarda età, ogni anno in più riduce sia l’efficienza della spermatogenesi, sia la qualità della struttura della qualità del DNA.

Non deve quindi stupire che il “fattore età” riduca anche le percentuali di successo delle tecniche di PMA. In un quadro generale di aumento dell’infertilità di coppia, che si attesta oggi attorno al 15-20%, si sta infatti sempre più confermando che le cause dipendono, più o meno nella stessa misura, da fattori femminili e maschili. Si tratta di aspetti in continuo approfondimento da parte della ricerca, che verranno trattati anche nel prossimo Congresso della Società Italiana di Endocrinologia, che si terrà a Taormina dal 27 al 30 maggio prossimi. Sta di fatto che le probabilità di successo, in caso di tecniche di PMA, sono tanto maggiori quanto più precocemente si decide di farvi ricorso. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), dopo i 35 anni, è opportuno chiedere un approfondimento diagnostico e accedere a un trattamento se, dopo sei mesi-un anno di rapporti finalizzati al concepimento, la coppia non è ancora riuscita ad avviare una gravidanza.

Tutte le donne (e i loro compagni) che intraprendono questo percorso devono oggi essere consapevoli della sicurezza sia dell’approccio diagnostico con isteroscopia o laparoscopia, sia dell’eventuale chirurgia necessaria per risolvere eventuali ostacoli presenti in ovaio, tube e utero che, oggi, è nella maggior parte dei casi mini-invasiva sia, infine, delle terapie farmacologiche a cui si deve ricorrere per risolvere i disturbi dell’ovulazione. Nei centri PMA autorizzati dal Ministero della Salute, le tecniche scelte per ciascuna coppia sono infatti la tappa finale di un percorso multidisciplinare, che si completa grazie alla collaborazione sinergica di più figure professionali, formate in modo specifico: dal ginecologo all’endocrinologo, dall’andrologo all’urologo al biologo della riproduzione, senza dimenticare l’affiancamento fondamentale dello psicologo.

La legge 40, com’è noto, regola il ricorso alle tecniche di PMA che, se omologa (ovvero se prevede l’utilizzo di ovociti e sperma della coppia), è a carico dello Stato. Nel caso di PMA eterologa, in cui i gameti femminili (ovociti), o maschili (sperma) provengono da un donatore esterno alla coppia, la copertura della procedura non è ancora assicurata su tutto il territorio nazionale. Resta in sospeso la situazione della Regione Lombardia, che aveva deliberato l’onere totale a carico delle famiglie (da 1500 a 4000 euro), per le tecniche di PMA eterologa. Una decisione che, a metà aprile, è stata sospesa dal Consiglio di Stato, dopo il ricorso presentato da associazioni di pazienti, in quanto prefigura «disparità di trattamento tra chi deve ricorrere alla fecondazione eterologa e chi invece all’omologa».

La Regione Lombardia ha, da parte sua, dichiarato che «difenderà al Tar le sue scelte, fondate su motivazioni di ordine legislativo e non certo ideologico, in attesa delle necessarie determinazioni dello Stato. Se invece nelle prossime settimane verrà approvato il decreto di integrazione nei Lea (Livelli essenziali di assistenza) anche della fecondazione eterologa, Regione Lombardia farà la sua parte».