Ogni giorno la Scienza affina sempre più le sue armi nella lotta contro il cancro soprattutto quando la malattia colpisce pazienti in giovane età. Diagnosi sempre più precoci e terapie innovative migliorano il tasso di sopravvivenza. Non solo: vi sono anche i mezzi per aggirare quello che tra gli effetti collaterali delle terapie antitumorali è il più temuto, ovvero, la possibile compromissione della funzione riproduttiva.
Oggi, infatti, è possibile prevenire l’infertilità dovuta ai trattamenti oncologici ricorrendo alla preservazione dei gameti prima dei trattamenti chemioterapici. Ce ne parla la Dr.ssa Maria Elena Vento, Senior Clinical Embriologist (ESHRE).
Effetti delle terapie antitumorali sull’apparato riproduttivo femminile e maschile
Le attuali terapie antitumorali permettono la guarigione o la sopravvivenza a lungo termine nella maggioranza dei giovani pazienti oncologici. Tuttavia, possono compromettere la funzione riproduttiva in maniera temporanea o permanente. Questo riguarda sia i trattamenti locali come la radioterapia e la chirurgia, che i trattamenti sistemici come la chemioterapia e l’ormonoterapia.
È importante precisare che la reazione ai trattamenti varia da individuo a individuo e dipende da una serie di fattori. Ad esempio: tipo di farmaco, dose utilizzata, patologia in atto, durata del trattamento e, infine, età del paziente.
L’uomo
Nell’uomo alcuni effetti collaterali, conseguenti ai trattamenti antineoplastici, sono facilmente misurabili con la valutazione del numero di spermatozoi nell’eiaculato, la loro motilità e morfologia e l’integrità del DNA di cui sono vettori. Vi possono essere altri danni, evidenziabili solo con esami molto complessi, come le alterazioni nella struttura e nel numero dei cromosomi che portano inevitabilmente all’aborto in caso di concepimento.
La donna
Nella donna i trattamenti antiblastici, quali chemioterapia e radioterapia, in particolare quelli che danneggiano il DNA, riducono drasticamente il numero degli ovociti primordiali, diminuendo la cosiddetta riserva ovarica e aumentando il rischio d’infertilità e menopausa precoce.
Trattamenti chirurgici e/o radioterapia possono indurre cambiamenti anatomici o della vascolarizzazione a carico delle tube e impedire il concepimento naturale anche in presenza di funzione ovarica conservata. In questi casi è possibile ricorrere alle tecniche di riproduzione assistita per ottenere la gravidanza.
Le raccomandazioni AIOM
Ritengo importante citare le raccomandazioni dell’AIOM (Associazione Italiana di Oncologia Medica): ”La crescente complessità dei trattamenti oncologici integrati, più efficaci ma anche più tossici, impone già in fase di programmazione terapeutica una maggiore attenzione alla qualità di vita a lungo termine, compresa un’attenta discussione sui temi riproduttivi. È pertanto indispensabile assicurare a questi pazienti un percorso privilegiato e tempestivo per l’attuazione di strategie per preservare la fertilità che consentano l’accesso ai trattamenti oncologici nei tempi appropriati, senza ritardi che possano comprometterne l’efficacia. Al superamento della malattia, laddove le condizioni cliniche lo consentano, i pazienti potranno ricorrere alle tecniche di fecondazione assistita utilizzando il materiale biologico in precedenza prelevato e conservato presso la banca biologica dedicata”.
I tumori e la popolazione giovane
Le patologie neoplastiche sono in crescente aumento e colpiscono fasce sempre più giovani di popolazione. Si calcola che, in Italia, circa il 3% dei casi di tumore maligno sia diagnosticato in pazienti di età inferiore ai 40 anni.
I più comuni tipi di cancro nei giovani sono rappresentati nell’uomo dal tumore del testicolo, del colon-retto, della tiroide, dal melanoma e dal linfoma non Hodgkin, mentre nella donna dal carcinoma mammario, dal tumore della tiroide, della cervice uterina, del colon-retto e dal melanoma. Diverse condizioni socioculturali hanno inoltre determinato, negli anni, uno spostamento in avanti dell’età della prima gravidanza e non è raro, quindi, che il cancro possa colpire uomini e donne che non hanno ancora terminato il proprio percorso riproduttivo.
Il tempo: un fattore chiave
La diagnosi di qualunque neoplasia rappresenta un momento drammatico per la vita del paziente ma l’insorgenza in giovani-adulti può influenzare la salute riproduttiva e sessuale e incidere in modo rilevante sulla vita futura. Ricorrere alla crioconservazione delle cellule riproduttive, prima di intraprendere il difficile percorso delle terapie antitumorali, fornisce ai pazienti la possibilità di non rinunciare a una genitorialità futura rimandando la scelta di diventare genitori in tempi più consapevoli.
Il fattore tempo gioca un ruolo fondamentale. In genere è lo stesso Oncologo che, una volta comunicata la diagnosi, invita il paziente o la famiglia, in caso di minori, a prendere contatto con i Centri specializzati, distribuiti almeno uno per regione, nel territorio nazionale. Essi saranno in grado di offrire una strategia personalizzata per raggiungere un importante obiettivo: crioconservare le cellule riproduttive senza interferire con il percorso della guarigione.
Le norme
A indicare la strada è l’accordo “Tutela della fertilità nei pazienti oncologici”, su proposta del Ministero della Salute e, approvato nella seduta del 21 febbraio 2019 dalla Conferenza Stato Regioni.
Il documento definisce sia i criteri di accesso dei pazienti al Percorso diagnostico- terapeutico assistenziale (Pdta), che le regole per l’istituzione, organizzazione e gestione delle Biobanche per la conservazione di questo prezioso materiale biologico.
Proprio per assicurare una conservazione sicura e qualitativamente garantita di gameti e tessuti riproduttivi, il documento dispone regole precise per l’istituzione, organizzazione e gestione delle biobanche. Queste devono essere istituite in centri pubblici o senza scopo di lucro, il loro numero definito in ogni Regione e rispondere a criteri organizzativi e strutturali rigorosi periodicamente verificati, definiti a livello europeo. La progettazione delle sale criobiologiche, deve essere eseguita seguendo rigide regole costruttive e gestionali, per garantire la qualità dei materiali conservati e la sicurezza degli operatori della biobanca.
Nonostante l’accesso alle strutture autorizzate in territorio nazionale sia tempestivo, solo 5 regioni (Veneto, Liguria, Emilia Romagna, Toscana, Lazio, Campania) hanno già recepito il documento pertanto le modalità d’accesso variano da Centro a Centro.
L’importanza del counseling multidisciplinare
Il counseling multidisciplinare è fondamentale e il Ginecologo della Riproduzione, insieme all’Oncologo, sono figure chiave nell’elaborazione della strategia terapeutica più adeguata. Il raggiungimento dell’obiettivo richiede, come già accennato, anche altre figure specialistiche (chirurgo, radioncologo e psicologo) e strutture adeguate. Il Laboratorio di Criobiologia, gestito da Biologi esperti nelle tecniche più all’avanguardia per congelare cellule e tessuti, rappresenta il perno di questo proposito. L’incontro con lo psicologo è, inoltre, parte integrante del percorso poiché consente ai pazienti momenti di riflessione che favoriscono la partecipazione attiva al percorso di cura.
Le tecniche
Le tecniche di crioconservazione consentono il mantenimento della vitalità cellulare per un tempo prolungato a bassissime temperature (- 196° C) in azoto liquido, permettendo il loro impiego anche dopo molti anni.
Per preservare la fertilità si congelano nell’uomo gli spermatozoi o il tessuto testicolare, nelle donne gli ovociti o il tessuto ovarico.
Per contrastare il possibile danno che le basse temperature provocano sulle cellule, il campione è preparato aggiungendo particolari sostanze denominate “crioprotettori”. Il loro utilizzo, in concentrazioni e tempi di esposizione adeguati, protegge il materiale biologico dallo shock termico e salvaguarda l’integrità della membrana cellulare.
Nella fattispecie il crioprotettore a contatto con la cellula:
Penetra all’interno e va a sostituire l’acqua intracellulare. Ciò determina un abbassamento della temperatura di congelamento in modo da evitare la formazione di cristalli di ghiaccio che possono ledere la struttura intracellulare.
Stabilizza le membrane cellulari proteggendole dallo shock termico.
In due articoli dedicati, affronteremo più un dettaglio le tecniche di crioconservazione per l’uomo e per la donna.
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LINEE GUIDA PER LA SALA CRIOBIOLOGICA DI UN ISTITUTO DEI TESSUTI approvate dal centro Nazionale Trapianti 6 novembre 2014
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LINEE GUIDA PRESERVAZIONE DELLA FERTILITÀ NEI PAZIENTI ONCOLOGICI. Aiom 2020.
Endometriosi e gravidanza: un binomio che sembra impossibile. Cos’è l’endometriosi? Quali sono i sintomi e quali le terapie? Chi soffre di questa patologia può realizzare il sogno di diventare mamma?
Ne abbiamo parlato con la Dr.ssa Sara Scandroglio, specialista in ginecologia e ostetricia.
Cos’è l’endometriosi
L’endometriosi viene definita come la presenza di tessuto simil-endometriale funzionale (epitelio, ghiandole e stroma) al di fuori della cavità uterina. Le cellule che compongono i focolai endometriosici, infatti, sono estremamente simili a quelle che compongono l’endometrio (la mucosa che riveste la superficie interna dell’utero) dal punto di vista strutturale e funzionale: il tessuto endometriosico si trova perciò in sede “ectopica” (dove normalmente non dovrebbe essere), ma risponde agli stimoli ormonali ciclici femminili esattamente come farebbe l’endometrio. Lo stimolo ormonale di natura estrogenica stimola la proliferazione delle cellule endometriosiche e, conseguentemente, determina la sintomatologia clinica [1].
La causa dell’endometriosi
Sebbene la causa dell’endometriosi non sia a tutt’oggi chiaramente definita, sono state sviluppate diverse ipotesi: secondo alcuni autori, le cellule endometriali sfaldate durante la mestruazione arriverebbero in cavità peritoneale attraverso le tube di Falloppio, mediante un processo definito “mestruazione retrograda”, e si impianterebbero; altre teorie ipotizzano che le cellule endometriosiche derivino da cellule staminali dislocate in sede ectopica durante il processo di organogenesi in fase embrionale, le quali rimarrebbero quiescenti durante la fase pre-puberale e si riattiverebbero durante la fase fertile della vita, in seguito agli stimoli ormonali [2].
A prescindere dalla modalità con la quale le cellule endometriosiche arrivano e si impianto in cavità pelvica, queste ultime in condizioni fisiologiche dovrebbero venire attaccate ed eliminate dal sistema immunitario (linfociti T, cellule Natural Killer e macrofagi) della paziente: nelle pazienti affette da endometriosi è stato osservato in numerosi studi che questo “controllo immunitario” a livello peritoneale appare limitato, per cui le cellule endometriosiche “evadono la sorveglianza” da parte del sistema immunitario e si impiantano e proliferano in cavità pelvica [3]. Appare chiaro perciò che la genesi della patologia sia riconducibile a diversi aspetti, non mutuamente esclusivi, di natura genetica, epigenetica ed immunologica.
Le caratteristiche della patologia
L’endometriosi si caratterizza come una patologia dell’età riproduttiva. Secondo le ultime linee guida dell’European Society of Human Reproduction and Embryology, la patologia colpisce circa una donna su dieci, ed è associata all’infertilità in circa il 50% dei casi [4]. Le sedi dove si sviluppano più frequente le lesioni endometriosiche sono: le ovaie, il peritoneo che riveste la cavità pelvica, il cavo di Douglas ed il setto-retto-vaginale ed i legamenti dell’utero. In una percentuale minore di casi viene interessato l’intestino e/o l’apparato urinario (soprattutto vescica ed ureteri. In casi estremamente rari la patologia può interessare sedi molto lontane dalla cavità pelvica, quali gli organi toracici o l’encefalo.
I sintomi
La sintomatologia è riconducibile principalmente al dolore pelvico acuto (usualmente in concomitanza della fase mestruale) e cronico, dispareunia (dolore durante i rapporti), sterilità/infertilità, sanguinamenti intermestruali. A questi si possono aggiungere alcuni sintomi specifici, quali dolore alla defecazione e sanguinamento rettale (in caso di interessamento intestinale) o ematuria (in caso di interessamento uretero-vescicale). Chiaramente la sintomatologia può presentare notevoli ripercussioni invalidanti sulla vita della paziente: basti solo pensare all’impatto che il dolore pelvico cronico può avere sul lavoro della donna o, parimenti, la presenza di dispareunia e l’infertilità sul rapporto di coppia [5]. Per questo motivo è assolutamente fondamentale avere un approccio multidisciplinare alla paziente, con professionisti di diverse discipline, possibilmente in centri di riferimento per il management della patologia [6].
La classificazione
Usualmente l’endometriosi viene classificata in 4 stadi secondo il “revised American Fertility Society score”, a seconda della gravità della patologia [7]. È importantissimo sottolineare, però, che non sempre lo stadio di malattia è correlato alla gravità della sintomatologia: anche pazienti al I-II stadio possono presentare elevati livelli di dolore pelvico o essere infertili. Dal punto di vista prettamente clinico, si distinguono tre tipi principali di lesioni endometriosiche: lesioni peritoneali superficiali, endometriomi (cisti endometriosiche) ovarici ed endometriosi profonda infiltrante (“Deep Infiltrating Endometriosis”). Quest’ultimo tipo è quello più difficile da trattare dal punto vista chirurgico e farmacologico, e che può comportare esiti invalidanti [8].
La diagnosi
Il sospetto diagnostico per endometriosi viene posto innanzitutto sulla base di un’accurata raccolta della storia clinica della paziente e della visita ginecologica (o rettale, in caso di paziente virgo), a cui segue usualmente il supporto ecografico, utile nella diagnosi di endometriomi e di focolai di endometriosi profonda infiltranti [9]; in casi selezionati si potranno utilizzare anche altre metodiche, quali la Risonanza Magnetica Nucleare o la cistoscopia per escludere la presenza di cistite interstiziale, che spesso si associa ad endometriosi. Sebbene ci sia anche la possibilità di utilizzare marcatori sierologici come il CA-125, le ultime linee guida dell’European Society of Human Reproduction and Embryology raccomandano di escluderli data la loro bassissima sensibilità e specificità (non è raro infatti avere valori di CA-125 nel range di normalità anche in caso di diagnosi accertata!) [4]. Una volta posto il sospetto diagnostico, il “gold standard” per la diagnosi è rappresentato dalla laparoscopia, cui deve seguire necessariamente conferma istologica dei campioni prelevati dai focolai visualizzati.
La terapia medica
La terapia medica si avvale dell’utilizzo di diversi preparati ad azione ormonale [10], quali i progestinici o gli estroprogestinici in regime continuativo (senza interruzione, al fine di evitare il sanguinamento pseudo-mestruale), somministrabili per via orale, vaginale, intrauterina (intrauterine device – IUD, cosiddetta “spirale”), transdermica o ancora mediante impianti sottocutanei. Qualora queste terapie dovessero risultare non sufficienti, c’è la possibilità di prescrivere gli analoghi del Gonadotropin-releasing hormone (GnRH), da riservare esclusivamente per brevi periodi di tempo (massimo 6 mesi), possibilmente con l’utilizzo contemporaneo di un estroprogestinico (cosiddetta “add-back therapy”) ed escludendo le pazienti adolescenti, considerando i deleteri effetti di questo farmaco sulla massa ossea.
La terapia chirurgica
La terapia chirurgia attualmente è principalmente laparoscopica [11], per il ridotto rischio di emorragia nel corso dell’intervento, la minore incidenza di aderenze post-operatorie, la riduzione della degenza e della convalescenza, il minimo danno estetico. Una delle nuove prospettive della chirurgia mini-invasiva è rappresentata altresì dalla chirurgia robotica. Qualunque sia la tecnica chirurgica utilizzata, è fondamentale l’eradicazione di tutto il tessuto patologico, l’elettrocoagulazione dei focolai peritoneali, e, per quanto possibile, il ripristino della normale anatomia e la preservazione del parenchima ovarico indenne. In ogni caso, chirurgia per endometriosi dovrebbe essere riservata a centri di riferimento [6], specialmente nel caso di endometriosi profonda infiltrante.
Il percorso di Procreazione Medicalmente Assistita
L’endometriosi nei suoi diversi stadi può comportare infertilità e in questo caso risulta fondamentale il ricorso precoce da parte della coppia a tecniche di Procreazione Medicalmente assistita. Il medico specialista ha il compito di informare la coppia e di avviarla ad un percorso specialistico volto all’ottenimento della gravidanza.
Secondo le ultime linee guida ESHRE solo in caso di coppia giovane con endometriosi stadio primo è possibile proporre un percorso di I livello con 3 cicli di inseminazione intrauterina, in tutti gli altri stadi di malattia, tenendo conto sia della componente infiammatoria della patologia che della riduzione della riserva ovarica che della distorsione della anatomia pelvica è indicato un percorso di IVF di II livello (FIVET o ICSI).
Ottenere la gravidanza risulta dunque possibile e la gravidanza stessa, con l’allattamento successivo potranno costituire fattori protettivi per tutto il periodo dalla sintomatologia dolorosa e dal peggioramento del quadro endometriosico.
Dr.ssa Sara Scandroglio, Specialista in Ginecologia e Ostetricia
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Riuscirò a sentire mio il bambino? Mi somiglierà, almeno un po’? Cosa penseranno gli altri? È giusto rivelare a mio figlio com’è nato? Sono questi i principali dubbi e preoccupazioni della coppia che intraprende un percorso di fecondazione eterologa.
Ritrovarsi di fronte alla diagnosi d’infertilità o ancor di più di sterilità, può generare una profonda crisi a livello sia individuale che relazionale. Nella coppia, l’altalena di emozioni provate, se non gestita con efficacia, con il tempo rischia di compromettere il legame, invece di rafforzarlo. Non solo, la scelta di affidarsi alla medicina può risultare difficile da maturare e anche quando si decide di intraprendere un percorso di PMA, il cammino che si prospetta è spesso faticoso e non sempre risolutivo del problema. Ogni tecnica di procreazione medicalmente assistita potrebbe generare specifiche difficoltà psicologiche. Queste possono riguardare il tipo di procedura medica utilizzata, i tempi del trattamento, l’alta frequenza dei controlli e la probabilità di successo. In generale, le coppie che arrivano in un centro di PMA hanno già precedentemente vissuto frequenti delusioni e insuccessi.
La fecondazione eterologa
L’esigenza di un’informazione accurata e di sostegno psicologico emerge ancor di più nei casi di fecondazione eterologa, in cui le emozioni conflittuali si moltiplicano in relazione all’inserimento, nel processo generativo, di un donatore esterno.
È necessaria una profonda elaborazione da parte dei coniugi rispetto ai fattori psicologici implicati e la possibilità di analizzare le fantasie e le aspettative della coppia per riportare il bambino ideale sul piano della realtà e fare i conti con gli aspetti fisici non completamente a carico del patrimonio genetico dei due genitori.
La fiaba della vita
Tra le principali preoccupazioni delle coppie che affrontano un percorso di fecondazione eterologa emergono molto frequentemente, vari dubbi e timori, tra questi un grande dilemma è: “come spieghiamo a nostro figlio quali sono le sue origini?”
Da un punto di vista psicologico, non si possono dare indicazioni specifiche ed assolute sull’opportunità o meno di rivelare le origini al figlio. In base ai risultati di vari studi condotti sugli effetti psicologici derivanti dal comunicare o meno questa circostanza al figlio, si giunge alla conclusione che non esistono decisioni giuste o sbagliate.
Negli anni sono aumentate le coppie che si sottopongono alla tecnica di fecondazione eterologa, che sono orientate a rivelare la donazione al bambino mentre prima solo una piccola percentuale si sentiva di affrontare l’argomento; altre coppie sono intenzionate a rivelarlo alla maggiore età del figlio. È bene ricordarsi che per il bambino è fondamentale sentire l’intensità e la qualità del desiderio d’averlo voluto concepire ed allevare poi, con amore nonostante la sterilità.
Dare spazio al dialogo, anche di gruppo
La coppia che decide di intraprendere questo tipo di tecnica, al fine di essere supportati in questo delicato compito, necessita di uno spazio adatto dove poter esprimere ogni emozione contrastante. Richiedere una consulenza psicologica è necessario, per confrontarsi con uno psicologo psicoterapeuta che si occupa di tematiche legate all’infertilità, per ricevere le indicazioni e la consulenza specifica per il proprio caso.
In questa fase le coppie devono trovare uno spazio di dialogo, condivisione e confronto su questi dubbi. Se la coppia si regge su basi solide avrà le risorse per affrontarlo: condividere il più possibile questo momento, le ansie e le preoccupazioni con il proprio compagno aiuta la coppia a superare i momenti di incertezza e di difficoltà ed a costruire solide basi per una maternità e una paternità serene. I vantaggi maggiori, trattandosi di fecondazione assistita, provengono da un lavoro di coppia e di gruppo.
E’ fondamentale che all’interno della coppia vi sia una relazione equilibrata ed armoniosa. Nel momento in cui sono state affrontate le legittime paure ed incertezze, la coppia riuscirà a mettere in atto un processo decisionale congruo con il proprio stato emotivo.
Per la preservazione della fertilità, la crioconservazione degli ovociti e il social freezing sono tecniche ormai consolidate nella medicina della riproduzione. Fino a che punto possono aiutare una donna e una coppia a capire qual è il momento giusto per concepire un figlio? In cosa consistono queste tecniche? Qual è il ruolo del ginecologo?
Abbiamo approfondito l’argomento con la Dr.ssa Sara Scandroglio, specialista in Ginecologia e Ostetricia.
Preservare la fertilità
Nella società attuale il desiderio di gravidanza emerge sempre più tardivamente ed in particolare nel nostro paese l’età media al parto del primo figlio è sempre più avanzata.
Il desiderio di completare la famiglia con l’arrivo di uno o più bambini, ci dicono sociologi e psicologi, è chiaramente parte della natura umana ed in particolare spiccato desiderio della maggior parte delle donne. Tenendo però conto di come sia cambiata la società e di come si sia evoluta in senso pienamente positivo la figura della donna, sempre più capace di emergere nel lavoro, di sviluppare una brillante carriera, di occupare posizioni in passato prevalentemente occupate dall’uomo, si comprende come il desiderio di maternità si sia dovuto confrontare con le difficoltà organizzative di una donna che dedica anni della sua vita allo studio, a cercare un impiego, a dimostrare le sue capacità ed evolvere in senso professionale.
Ciò ha portato a procrastinare sempre più in là con gli anni la ricerca del primo figlio, che si è spostata dai 25-30 anni fino ai 40 anni.
Quando concepire un figlio?
D’altra parte, sempre più complesse sono le dinamiche di coppia e l’età media in cui si giunge ad una relazione stabile di matrimonio o convivenza che poi sfocia nel desiderio di avere un bimbo è altresì più avanzata.
Da ultimo, non dobbiamo dimenticare che concepire un bimbo in una realtà in cui entrambi i genitori hanno un impiego lavorativo comporta una necessità di supporto logistico per l’accudimento del bambino stesso; non tutte le coppie hanno la possibilità di poter contare sul prezioso aiuto dei nonni ed asili nido e baby sitter comportano un impegno economico non indifferente per il bilancio familiare.
Nel complesso potremmo ampliare la discussione su ciascuno dei temi sopraccitati ma risulta comunque chiaro che l’età media in cui inizia la ricerca di una gravidanza risulta oggi significativamente più alta che in passato e le cause sono molte.
Il punto di vista biologico
Tuttavia, dal punto di vista puramente biologico, l’età anagrafica e l’età ovarica sono rimaste quelle di un tempo e se oggi molto più che in passato una donna di 40 anni si trova nel fiore dei suoi anni, nel corso della sua carriera lavorativa, nel pieno delle sue forze fisiche e mentali, più consapevole dei suoi desideri tra cui quello di maternità, d’altra parte dobbiamo ricordare che la fertilità declina in modo esponenziale già dai 35 anni e in modo molto molto marcato dopo i 40 anni. A 43 anni la probabilità di concepimento si assesta non oltre il 3-5% e il tasso di aborti spontanei, la contropartita dell’invecchiamento ovocitario, intorno al 70%.
Neppure il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita può ovviare al declino della fertilità correlato con la riduzione della riserva ovarica per l’invecchiamento in quanto anche le procedure di fecondazione in vitro necessitano di una risposta multifollicolare alla stimolazione ovarica che viene meno con il passare del tempo. Per le pazienti over 40, in particolare over 43, la procreazione assistita non è in grado di garantire un tasso di gravidanza significativamente superiore a quanto avviene spontaneamente e sopra menzionato.
Il social freezing
Ed è così che negli Stati Uniti dove la situazione socio-economico-culturale descritta per il nostro paese risulta ancora più accentuata, è nata l’idea del social freezing ovvero di procedere preventivamente alla crioconservazione di un certo numero di propri ovociti, da utilizzare poi quando, finiti gli studi, raggiunti gli obiettivi di carriera fosse venuto il tempo “giusto” per la gravidanza.
Ciò apre una moltitudine di scenari e pone una serie di interrogativi.
La tecnica di congelamento degli ovociti
Innanzitutto la tecnica: per poter congelare ovociti è necessario che la donna si sottoponga ad una stimolazione ovarica farmacologica in modo da produrre un certo numero, quanto più elevato possibile, di follicoli da sottoporre ad aspirazione ecoguidata (pick up) da cui recuperare gli ovociti che verranno poi crioconservati mediante vitrificazione. Il procedimento risulta di un certo impegno sia dal punto di vista fisico che psicologico, applicato in età di piena fertilità (25-30 anni) potrebbe con minimi rischi permettere di bancare dai 20 ai 30 ovociti che costituirebbero una ottima scorta da usare poi mediante FIVET/ICSI (fertilizzazione in vitro) al momento della ricerca della gravidanza.
Teniamo anche conto del fatto che la cellula uovo in passato crioconservata con modalità di congelamento lento sopravviveva male al successivo scongelamento. In tempi più recenti con l’introduzione routinaria della vitrificazione la sopravvivenza ovocitaria allo scongelamento è aumentata notevolmente ma varia dal 30 al 90% in relazione ad una serie di fattori. Ciò significa che congelare oggi 10 ovociti può voler dire averne poi da 3 a 9 da poter realmente utilizzare al momento in cui si desideri intraprendere la ricerca della gravidanza.
Social freezing per tutte le donne?
In secondo luogo ci domandiamo se sia giusto proporre questa tecnica a tutte le giovani donne, facendo così passare in secondo piano la modalità naturale di concepimento spontaneo, l’età di maggiore fertilità e l’età della maternità biologica, rendendo socialmente accettabile che la donna debba dedicarsi necessariamente prima alla carriera e poi alla maternità ed infine trasmettendo il messaggio che un figlio si può fare quando si vuole, un po’ come avviene quando la donna in età avanzata decide di sottoporsi ad una tecnica di fecondazione eterologa come l’ovodonazione. Certamente l’utilizzo di ovociti “giovani”, siano essi propri o donati aumenta le chance di gravidanza di una donna over 40 ma ricordiamo che il tasso di successo della fecondazione in vitro varia dal 30-35% ad un massimo del 40% per embriotransfer con un tasso di bimbi in braccio tra il 20-22% delle fecondazioni omologhe ed il 30-35% delle eterologhe.
Tolti questi limiti, tenendo conto dell’evoluzione della nostra società, dovremmo anche considerare i risvolti nettamente positivi di una politica di programmazione familiare di tipo misto, laico, lungimirante in cui l’egg freezing costituisca una opportunità, una libera scelta, da proporre accanto ad un accurato counselling sulla fertilità e sulla maternità consapevole.
Una opportunità insomma che forse in futuro dovrebbe essere offerta a tutte le donne: ciascuna poi sarà in grado di effettuare una libera scelta sulla possibilità di crioconservare i propri ovociti da utilizzare in un futuro se si rendessero necessari.
La pianificazione responsabile della gravidanza
Esistono in particolare alcune categorie di donne per le quali il passare del tempo costituisce un rischio molto importante per la possibilità di avere un bimbo, pensiamo ad esempio alle pazienti con endometriosi, con storia familiare di menopausa precoce, con mutazione BRCA che le predispone al cancro ovarico e mammario. Per queste donne il pool di ovociti crioconservati in giovane età potrebbe costituire l’unica successiva chance di dare alla luce un bimbo.
Ovviamente le difficoltà di sviluppare un progetto di egg freezing così ambizioso nel nostro paese stanno anche nelle ridotte risorse economiche del nostro sistema sanitario, che ha evidenziato proprio in tempi attualissimi, nel corso della pandemia da COVID 19, i suoi limiti legati ad una politica di tagli alla sanità degli ultimi decenni ma anche la capacità fondata sul lavoro, sulla intelligenza, sulla scienza e sulla ragione di aggiustare il tiro e di sviluppare interi reparti a disposizione delle necessità contingenti. Mai come ora, in un presente reso incerto dal SARS-Cov2, viene da pensare al futuro e a come poter pianificare una gravidanza responsabilmente, anche con l’aiuto della medicina della riproduzione.
Il ruolo chiave del ginecologo
In conclusione non essendo al momento disponibile una proposta di egg freezing a tutta la popolazione, la figura del ginecologo resta estremamente importante nell’informare le giovani donne sulla loro fertilità, sulle problematiche che potrebbero presentarsi, favorire una maternità consapevole in età più giovane ed eventualmente indirizzare a centri di procreazione assistita pazienti eligibili a crioconservazione ovocitaria volontaria o per patologie minori, fermo restando che la crioconservazione rimane la tecnica di scelta praticata e offerta ad oggi in modo sistematico alle pazienti oncologiche in età riproduttiva e grazie alla quale, una volta guarite, potranno tentare di concepire un figlio.
Dr.ssa Sara Scandroglio, specialista in Ginecologia e Ostetricia
Bibiliografia:
Assessing the quality of decision-making for planned oocyte cryopreservation J Assist Reprod genet. 2021 Feb 11.
Social egg freezing and donation: waste not, want not. J Med Ethics. 2021 Jan 5.
Freezing fertility: oocyte cryopreservation and the gender politics of aging. New York University Press. 2020 dec.
Upholding success: Asian Americans, Egg freezing, and the fertility paradox. Med Anthropol. 2021 Jan.
Il fallimento della PMA può innescare reazioni molto diverse, sia nella coppia sia nei componenti della stessa. Quali sono le più comuni e quali sono i consigli dello psicologo per superare la situazione, singolarmente e insieme?
Il vuoto che si genera dall’impossibilità di donare la vita è una ferita che colpisce prima l’individuo e poi la coppia. È un lutto difficile da elaborare, in quanto viene vissuto come una mancata proiezione di sé nel futuro.
È un dolore forte e profondo, difficile da gestire, in quanto il fallimento del trattamento conduce ad una rivisitazione dell’immagine di sé come genitori e del bambino idealizzato. La coppia accusa fortemente il colpo: calano i livelli di speranza, ci si chiude rispetto alla relazione e agli affetti; l’entusiasmo cede il posto alla passività e all’insicurezza, calano così i livelli d’autostima.
Il supporto dello psicologo
Confrontarsi con il fallimento successivo al tentativo della Fivet, è per molte coppie fonte di sofferenza, angoscia e sconforto, a maggior ragione se questo è l’ennesimo da dover affrontare.
Un passo importante da effettuare davanti un esito negativo, è richiedere una consulenza psicologica. La coppia, durante il percorso di PMA, attraversa alcune fasi fondamentali. Per questo motivo la consulenza psicologica pone l’attenzione alla tutela dell’assetto psicologico già prima dell’inizio del trattamento. Come? Sostenendo e supportando tutti i risvolti emotivi e relazionali paralleli alle tecniche mediche della fecondazione assistita. In questo modo, la coppia sarà tutelata sin da subito, a far fronte alle legittime emozioni negative, conseguenti sia alla diagnosi d’infertilità e sia all’eventualità di un fallimento del trattamento.
Dunque, aiutare la coppia ad accettare la diagnosi, sostenerla nel percorso, ma soprattutto, accompagnarla nell’elaborazione del lutto in caso di insuccesso, è ciò che avviene durante la consulenza con le coppie. Viene spontaneo, dunque, chiedersi cosa sia necessario ed importante fare per cercare di far fronte ad una situazione del genere.
È importante condividere il dolore
Condividere il dolore è fondamentale. La verbalizzazione delle proprie emozioni è molto importante, sia attraverso il confronto con lo psicologo in sedute individuali o di coppia, sia all’interno di sedute di gruppi d’incontro. Questi incontri sono mirati alla partecipazione di coppie che vivono la stessa condizione. Ascoltare le esperienze altrui, condividere pensieri e sentimenti, prendersi cura dei loro vissuti, permette innanzitutto di sentirsi capiti ed accettati. Inoltre, con il confronto altrui ci si accorge che anche altre persone hanno dolori simili.
Nel condurre il gruppo d’incontro, il ruolo dello psicologo è quello di favorire l’interazione tra i partecipanti, al fine di facilitare un vissuto di universalità delle varie esperienze, rispettandone contemporaneamente, le loro unicità. La verbalizzazione delle proprie emozioni facilita una comunicazione empatica tra chi sta vivendo un’esperienza di fallimento.
L’importanza dell’approccio multidisciplinare
Inoltre, è importante per la coppia valutare insieme all’équipe del centro, gli aspetti che hanno potuto incidere sul fallimento; questo confronto è produttivo, in quanto permette di comprendere quali siano le indicazioni possibili su cui lavorare e migliorare così le probabilità di successo. La presenza dell’équipe multidisciplinare, in un momento così delicato e triste, rassicura lo stato d’animo dei pazienti ed aumenta in questo modo i livelli di benessere psicofisico grazie all’ascolto attivo e alla comunicazione empatica dell’équipe.
Mancata gravidanza prima e fecondazione assistita poi, possono mettere a dura prova l’equilibrio psicologico della coppia
Desiderare tanto un figlio e non riuscire a dare avvio a una gravidanza può trasformarsi in disagio psicologico sia per la donna sia, in generale, per la coppia. Inoltre, la probabilità di doversi confrontare con le difficoltà di concepimento aumenta se la decisione di fare un figlioviene spostata in là nel tempo. Questo accade sempre più spesso nelle giovani coppie, per dare spazio a lavoro, sicurezza economica eccetera. Insomma, c’è il rischio di ritrovarsi ad aver rinviato per troppo tempo un appuntamento così importante della vita.
E, si sa, la biologia non aiuta. Intorno ai 40 anni, dopo uno, se non due anni di tentativi di fecondazione naturale, occorre valutare se ci siano le condizioni per intraprendere un percorso di fecondazione assistita.
Un supporto prezioso
Serve aiuto, per gestire le emozioni associate alla fecondazione assistita. Sono tante, sono forti, sono sia personali che “di coppia”. Anzitutto, gli aspetti psicologici conseguenti a una mancata gravidanza nonostante mesi di tentativo condizioneranno inevitabilmente la scelta della fecondazione assistita. Si parte già con un bagaglio di emozioni negative, come senso di svuotamento, fallimento, bassa autostima e identità in bilico.
Prima che si arrivi a un crollo emotivo è preferibile rivolgersi a uno psicologo o a un counselor. I centri di PMA solitamente offrono questo servizio, per accompagnare la coppia nel delicato percorso da uno stato d’infertilità e di vita senza figli a una fecondazione assistita che si auspica porti alla gravidanza e poi alla maternità.
Il supporto psicologico servirà, inoltre, ad affrontare e chiarire alcuni aspetti particolarmente delicati associati alla fecondazione assistita:
paura di un aborto;
timore di concepire un figlio “difettoso”;
ambiguità nella procreazione in laboratorio;
senso di isolamento rispetto ad altre coppie: non si fa parte né del mondo delle coppie infertili né di quelle che si riproducono naturalmente.
Forse un giorno non molto lontano un capello ci dirà se siamo fertili. Questo è ciò che emerge da una ricerca presentata al recente congresso dalla ESHRE, la Società europea di riproduzione umana ed embriologia. La ricerca sembra correlare i livelli di ormone antimulleriano presenti nel capello con quelli nei campioni di sangue.
L’ormone antimulleriano (AMH)
L’ormone antimulleriano (AMH) è un indicatore chiave per valutare come le donne possono rispondere ai trattamenti per la fertilità. La misurazione di questo ormone è diventato un marker importante nella medicina della riproduzione. Infatti, consente di stimare se la risposta della paziente alla stimolazione ormonale sarà normale, scarsa (pochi ovociti) o abbondante (a rischio di sindrome da iperstimolazione).
Come si misura l’AMH
L’ormone antimullerriano attualmente si misura attraverso un prelievo di sangue. I risultati, perciò, sono riferibili al momento in cui viene effettuato l’esame. L’analisi del capello effettuata nello studio presentato al congresso annuale dell’ERSHE, invece, risulta essere meno invasiva e in grado di rappresentare i livelli dell’ormone in modo “più appropriato”, come sostiene il Dottor Sarthak Sawarkar che ha presentato lo studio. Infatti, gli ormoni accumulati nei capelli sono rintracciabili per molte settimane, mentre i livelli di ormoni nel sangue possono cambiare nel corso di alcune ore. Un altro vantaggio del test sul capello è la minore invasività rispetto al prelievo di sangue.
Lo studio presentato all’ESHRE
Lo studio, che è tuttora in corso, al momento include i risultati di 152 pazienti. I capelli e il sangue di queste donne sono stati regolarmente raccolti durante le visite mediche. Contemporaneamente, alle pazienti sono stati contati – attraverso una tecnica a ultrasuoni, i follicoli in via di sviluppo, come ulteriore misura della riserva ovarica.
I ricercatori hanno rilevato livelli di AMH “biologicamente rilevanti” nei campioni di capello, con valori in diminuzione all’aumentare dell’età delle pazienti. “I capelli” – spiegano i ricercatori – “possono accumulare biomarcatori per settimane. Il sangue, invece, è una matrice acuta che rappresenta livelli ormonali momentanei. Mentre i livelli ormonali possono variare rapidamente nel sangue, in risposta a stimoli, quelli presenti nei capelli sono il risultato di accumuli nel corso di settimane. Una misurazione che utilizzi un campione di capelli può rappresentare meglio il livello ormonale medio”.
Da un nuovo studio emerge che gli ovociti scelgono gli spermatozoi da cui farsi fecondare. Questo dato potrebbe rivelarsi utile in medicina della riproduzione, per individuare le cause d’infertilità finora non spiegate in alcune coppie.
La selezione del partner è alla base del meccanismo di riproduzione degli animali. Lo scopo è assicurare alla prole il più grande vantaggio genetico possibile. Anche gli esseri umani investono tempo ed energie alla ricerca del partner con cui condividere la propria vita e avere figli. I requisiti per la scelta del compagno “giusto” possono essere molto diversi e anche il valore che attribuiamo loro.
Sembra, però, che ci sia una selezione ancora più accurata, che sfugge a ogni strategia di corteggiamento.
Lo studio
Da un nuovo studio pubblicato su “Proceedings of the Royal Society B” emerge che gli ovociti umani selezionano attentamente, mediante segnali chimici, gli spermatozoi da cui lasciarsi fecondare.
I gameti si riconoscono reciprocamente come i più idonei alla fecondazione, grazie a una sorta di attrazione chimica. Gli ovociti, quindi, attirano solamente alcuni spermatozoi e non altri, e non necessariamente quelli del proprio partner.
I ricercatori hanno analizzato il liquido follicolare che circonda gli ovociti durante la fase di maturazione. Questo liquido contiene sostanze chimiche dette chemioattrattori, che hanno la funzione di attirare gli spermatozoi presenti nelle vicinanze. L’obiettivo dello studio era capire se gli ovociti si servissero di queste sostanze per scegliere lo spermatozoo da attrarre, favorendo un determinato sperma rispetto ad altri.
I risultati
La selezione, come emerge dai dati, sembra essere molto specifica. “Il liquido follicolare di una donna era più abile nell’attrarre lo sperma di un certo uomo, mentre il liquido follicolare di un’altra donna lo sperma di un altro uomo”, ha spiegato John Fitzpatrick, professore dell’Università di Stoccolma e coautore dello studio. “Ciò dimostra che negli esseri umani le interazioni tra ovociti e spermatozoi dipendono dall’identità specifica delle donne e degli uomini coinvolti”. Inoltre, dalla sperimentazione è emerso che non sempre gli ovociti di una donna attraggono gli spermatozoi del suo partner più di quelli di altri uomini.
“L’idea che gli ovuli scelgano gli spermatozoi è davvero nuova nella scienza della fertilità umana”, ha commentato Daniel Brison, direttore scientifico del Dipartimento di medicina della riproduzione del Saint Marys’ Hospital di Manchester e autore principale dello studio. “La ricerca sul modo in cui ovuli e spermatozoi interagiscono potrà far avanzare ulteriormente i trattamenti per la fecondazione assistita e potrebbe permettere d’individuare le cause d’infertilità finora non spiegate in alcune coppie”.
Fonti:
Fitzpatrick John L. et al., 2020. Chemical signals from eggs facilitate cryptic female choice in humans, Proc. R. Soc. B., 287:202008505. Disponibile al link: https://doi.org/10.1098/rspb.2020.0805
Quale è stato l’impatto della COVID-19 sui servizi di PMA in Europa durante la pandemia? Quale l’impatto sulle coppie che hanno dovuto interrompere i trattamenti di PMA? I membri del The ESHRE COVID-19 Working Group hanno condotto una survey in 41 Paesi europei e hanno pubblicato i risultati su Human Reproduction Open.
Lo scenario in Europa
La pandemia legata alla malattia COVID-19 ha avuto un forte impatto sulle coppie con difficoltà di concepimento. Le cliniche della fertilità hanno sospeso i servizi di PMA, volontariamente o su indicazione delle Autorità Sanitarie nazionali, in media per 7 settimane.
Con la dichiarazione dello stato di pandemia, le Autorità locali hanno sospeso tutti i servizi sanitari non urgenti. Questo al fine di preservare le risorse da dedicare all’ stato di emergenza e per favorire il distanziamento sociale. Le società scientifiche hanno rilasciato raccomandazioni e posizioni su come procedere: ad esempio, la ESHRE (European Society of Human Reproduction and Embriology) a livello europeo e la SIRU (Società Italiana della Riproduzione Umana) in Italia.
La survey
Nel corso del congresso ESHRE tenutosi ad aprile – il convegno più importante a livello Europeo nell’ambito della riproduzione umana – i membri nell’ESHRE Committee of National Representatives hanno ricevuto un questionario. Il questionario chiedeva loro di indicare lo stato dei trattamenti di fecondazione assistita nel loro Paese di provenienza. Gli intervistati hanno dovuto precisare quali trattamenti di PMA sono stati interrotti, quali proseguiti e, in quest’ultimo caso, quali misure restrittive sono state adottate per contenere la pandemia.
Una volta raccolti, i ricercatori hanno incrociato i dati con quelli sulla COVID-19 resi noti dall’ECDC, European Centre for Disease Control. I dati dell’ECDC erano quelli sul numero di casi per Paese europeo.
I risultati principali
Nonostante le numerose differenze nei sistemi sanitari dei vari Paesi – si pensi a quello italiano – i ricercatori sono giunti ad alcune conclusioni. I dati mostrano che i vari Paesi hanno deciso di interrompere e riprendere i servizi di PMA in fasi molto diverse della pandemia. Analogamente, la sospensione ha avuto durata anche molto diversa. In genere, i trattamenti di preservazione della fertilità sono perlopiù rimasti attivi durante tutta la pandemia.
L’Italia è stata la prima a sospendere i servizi di procreazione assistita, il 1° marzo, altre nove Paesi l’hanno fatto nei 15 giorni successivi, seguendo le raccomandazioni dei vari Governi nazionali. Il 1° aprile tutti e 41 i Paesi rappresentati nella survey avevano interrotto, parzialmente o totalmente, i servizi di PMA. In alcuni Paesi, come ad esempio Svezia e Norvegia, l’impatto della pandemia è stato ridotto; di conseguenza, anche le attività di PMA sono state solo minimamente ridotte.
Repubblica Ceca, Danimarca, Germania, Lussemburgo e Norvegia sono stati i primi Paesi a riaprire i centri di fecondazione assistita, nella settimana dell 20 aprile. Gli altri hanno atteso il mese di maggio.
Le conclusioni
Nonostante le numerose semplificazioni che si sono rese necessarie nell’interpretazione dei dati, i risultati hanno portato i ricercatori ad alcune conclusioni.
La più significativa è che la sospensione delle attività di PMA ha avuto durata relativamente breve in tutti i Paesi, circa 7 settimane. Inoltre, sembra che la ripresa sia stata tempestiva, ai primi cenni di declino della curva dei nuovi casi di COVID-19. Questo può anche essere legato al fatto che per la WHO – World Health Organization – l’infertilità è un tema di importanza prioritaria. Analogamente, l’impatto psicologico per le coppie infertili è tenuto in seria considerazione dalle Società Scientifiche internazionali, che hanno emanato le linee guida per consentire la riapertura in tempi rapidi.
I ricercatori si augurano che la loro indagine su l’impatto della COVID-19 sulla PMA in Europa sia di supporto nel caso di una futura pandemia globale. Tutti noi leggiamo i risultati con grande interesse, sperando che non ce ne sia mai più bisogno.