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Secondo i dati del Ministero della Salute, in Italia il 10-15% delle donne in età riproduttiva è affetto da endometriosi, una patologia che interessa circa il 30-50% delle donne infertili o che hanno difficoltà di concepimento. Le donne con diagnosi conclamata sono almeno tre milioni.

Che cos’è l’endometriosi e che impatto ha sulla fertilità? Ne abbiamo parlato con la Dottoressa Sara Scandroglio, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Responsabile SS Procreazione Medicalmente Assistita, Ospedale Filippo Del Ponte, ASST Settelaghi Varese. 

Cos’è l’endometriosi?

L’endometriosi è una patologia caratterizzata dalla presenza di tessuto endometriale, cioè che mestrua, al di fuori dall’utero. Può avere delle localizzazioni ovariche, sotto forma di cisti endometriosiche, ma anche extra ovariche, può interessare i legamenti uterosacrali, il cavo di Douglas o tutta la pelvi, con dei foci cosiddetti endometriosi diffusi.

Dai sintomi alla diagnosi

Purtroppo, il tempo di latenza tra la comparsa dei sintomi e la diagnosi di malattia oscilla tra i 5 e i 10 anni. Questo accade perché la paziente con endometriosi a volte riferisce dei sintomi vaghi, può avere dolore mestruale (dismenorrea), dolore durante i rapporti (dispareunia), dolore durante la defecazione (dischezia). A volte questi sintomi, in assenza di evidenti segni ecografici, vengono interpretati in vario modo dal ginecologo curante, proprio perché si tratta di una malattia estremamente subdola.

L’impatto sulla infertilità

L’endometriosi è una patologia che merita molta attenzione perché impatta notevolmente sulla qualità della vita portando sofferenza, disagio e difficoltà ad avere rapporti. Inoltre, c’è una stretta associazione tra l’endometriosi e l’infertilità. Infatti, circa il 20% delle pazienti con endometriosi è infertile già in giovane età e circa il 30% delle pazienti infertili è affetta da endometriosi.

L’endometriosi in sé, per la presenza di un quadro infiammatorio pelvico cronico, comporta un danno a livello dell’apparato genitale, con una riduzione della riserva ovarica e una riduzione della capacità dell’embrione – che si sia formato spontaneamente o tramite tecniche di riproduzione assistita – di attecchire all’interno dell’utero, che può essere ulteriore sede di malattia (adenomiosi).

Come trattare l’endometriosi

In molti centri è presente un servizio dedicato al trattamento dell’endometriosi, che collabora strettamente con il centro di procreazione assistita. L’obiettivo è dare il supporto migliore alle pazienti, distinguendole fondamentalmente in due categorie: le pazienti con endometriosi che dobbiamo prendere in cura e alle quali dobbiamo migliorare la qualità di vita, e le pazienti che cercano un figlio.

Nelle prime, il trattamento si basa sull’utilizzo di farmaci – pillola in continua estroprogestinica o solo progestinica – o, se necessario, tramite l’intervento chirurgico.

Nelle pazienti che desiderano diventare mamma, ovviamente la terapia medica deve essere sospesa per favorire la ricerca della gravidanza ed eventualmente ricorrere ad una tecnica di PMA.

Come dicono le linee guida pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale a maggio 2024, l’endometriosi è una patologia per la quale, già dopo 6 mesi di ricerca della gravidanza, è necessario ricorrere ad una tecnica di PMA secondo livello, FIVET o ICSI. Il motivo è che la probabilità di gravidanza in queste donne è bassa, la riserva ovarica è spesso molto ridotta e la sintomatologia della paziente non consente di prolungare a lungo i trattamenti; perciò, la tempestività di intervento è cruciale.

Il consiglio

In caso di sospetta endometriosi, il consiglio è di rivolgersi a centri specializzati, dove effettuare un’anamnesi accurata, una visita e, soprattutto, un’ecografia, anche eventualmente con l’ausilio del color-doppler o delle ricostruzioni tri e quadri dimensionali, che consentono di identificare anche noduli più piccoli.

Il secondo passo è condividere con gli specialisti i propri obiettivi, in modo che possano essere oggetto di counseling multidisciplinare che coinvolga il ginecologo specialista in endometriosi, il ginecologo esperto in procreazione assistita ed eventualmente anche lo psicologo. L’obiettivo è dare ampio supporto a queste pazienti, che spesso hanno una qualità di vita veramente difficile, notevoli difficoltà ai rapporti di coppia e hanno bisogno di essere supportate a 360gradi.

La fertilità femminile è un tema complesso e affascinante, strettamente legato a un concetto fondamentale: la riserva ovarica. Ma cosa si intende esattamente con questo termine? E perché è così importante per le donne?

Ne abbiamo parlato con la Dottoressa Sara Scandroglio, Specialista in Ginecologia e Ostetricia, Responsabile SS Procreazione Medicalmente Assistita, Ospedale Filippo Del Ponte, ASST Settelaghi Varese 

Cos’è la riserva ovarica? E come cambia nel corso della vita?

La riserva ovarica è un parametro di misurazione della ricchezza follicolare ovarica ed è estremamente importante per la donna. Infatti, è strettamente legato sia alla probabilità di concepimento spontaneo sia alla riuscita delle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

A differenza degli uomini, che producono spermatozoi nel corso dell’intera vita, le donne nascono con un numero finito di ovociti, che diminuisce progressivamente. Infatti, con l’avanzare dell’età, la riserva ovarica si riduce gradualmente, fino ad esaurirsi con l’arrivo della menopausa, che in media si presenta attorno ai 50 anni.

Come viene misurata la riserva ovarica?

La riserva ovarica viene misurata e valutata mediante tre parametri principali, che sono:

  • I valori ormonali – attraverso gli esami del sangue, che si eseguono entro il quinto giorno del ciclo mestruale. In particolare, si considerano i rapporti tra l’ormone follicolo stimolante, l’ormone luteinizzante e l’ormone antimulleriano
  • La conta dei follicoli antrali e preantrali presenti su ciascun ovaio – attraverso un’ecografia, da eseguire entro il quinto giorno del ciclo
  • Un’attenta raccolta anamnestica che riguarda la regolarità mestruale, la storia dei cicli mestruali, l’eventuale presenza di menopausa precoce nella famiglia della paziente stessa

La riserva ovarica cambia con l’età?

La riserva ovarica cala con l’età, e questo è un aspetto ormai noto. Il picco di fertilità si verifica solitamente tra i 27 e i 30 anni, inizia a diminuire con il decrescere della riserva ovarica – in maniera logaritmica – dai 35 anni. Attorno ai 43-45 anni la riserva ovarica è quasi esaurita, nonostante non si possa ancora parlare di menopausa; la probabilità di concepimento sia spontanea che tramite procreazione assistita diventa di pochi punti percentuali, con un’abortività e un rischio elevato di patologia cromosomica.

Perché misurare la riserva ovarica?

Le ragioni per misurare la riserva ovarica sono più di una: ad esempio, può essere utile per una giovane donna che vuole avere un’idea della propria fertilità per pianificare un’eventuale gravidanza o pensare alla crioconservazione degli ovociti.

Inoltre, la riserva ovarica ha un ruolo fondamentale per quanto riguarda il trattamento della coppia durante un percorso di procreazione medicalmente assistita. Infatti, il tipo di percorso – di primo o secondo livello – e la scelta del farmaco e del dosaggio vengono valutati attentamente anche in funzione della riserva ovarica, in modo da personalizzare il più possibile il trattamento sulla base delle caratteristiche della paziente.

Una delle problematiche più frequenti nell’ambito dell’infertilità è quella degli aborti ripetuti.

Ne parliamo con il Dr. Carlo Torrisi, ginecologo, responsabile clinico e Direttore Sanitario del Centro di Medicina della Riproduzione e Infertilità di Catania.

Gli aborti ripetuti

Molti non considerano gli aborti ripetuti come una forma di infertilità, soprattutto se la fecondazione avviene spontaneamente. In realtà, paradossalmente sarebbe meglio che il concepimento non avvenisse, rispetto a un ripetersi di aborti e questo è un concetto che si fa fatica a far capire alle coppie. Nella vita di una donna l’aborto spontaneo non è un evento raro e dal punto di vista clinico non è preoccupante. Spesso si tratta di una selezione naturale, dell’eliminazione di un embrione che non ha possibilità di crescere. L’aborto spontaneo non è colpa di nessuno, anche se talvolta si crede che sia da imputare a qualcosa che la donna ha fatto o non ha fatto.

Aborto o gravidanza biochimica?

Va detto che molto spesso gli aborti ripetuti sono semplicemente delle gravidanze biochimiche, un test positivo, un valore Beta che non supera il 1000 e risulta tale ed è evidenziato soltanto perché la coppia interviene subito, dopo un solo giorno di ritardo del ciclo, con un Beta HCG.

I veri aborti sono veramente pochi e dobbiamo comunque distinguere l’aborto con l’evidenziazione della camera, se si evidenzia l’embrione, se si evidenzia il battito.

L’età avanzata della donna è la causa più frequente di aborto

La causa più frequente di aborto è l’età della donna: sappiamo infatti che dopo i 38 anni la percentuale di anomalie ovocitarie e cromosomiche è importante.

Quando si interviene con una tecnica di PMA può essere d’aiuto svolgere una diagnosi preimpianto, per identificare le blastocisti sane ed evitare quelle malate. Infatti, spesso si verificano delle anomalie cromosomiche nel cariotipo (microdelezioni, inversioni, traslocazioni non bilanciate) che possono alterare il meccanismo di divisione cellulare e bloccare l’evoluzione della gravidanza fino a mediamente 7-8 settimane.

Vanno considerate anche eventuali alterazioni del DNA spermatico: un aumento della sua frammentazione può essere corresponsabile della poliabortività.

Un’altra situazione frequente emersa in questi anni è quella delle anomalie della trombofilia. Spesso vengono identificate in blocco, in realtà bisogna fare una distinzione. Da un lato, le anomalie maggiori sono anomalie in etero-omozigosi del fattore 2 o del fattore 5: soltanto in questi casi, e non nelle decine di altre anomalie e mutazioni della coagulazione, si può parlare di trombofilia. Oppure si può verificare un’anomalia dell’MHTFR, soprattutto in omozigosi, che porta conseguentemente alla risalita dell’omocisteina. L’omocisteina è un aminoacido tossico che può alterare la vascolarizzazione della placenta e portare a delle complicanze della gravidanza anche in età tardiva, con aumento dei rischi di gestosi di ipertensione gravitica.

La terapia

In queste situazioni bisogna iniziare il trattamento con l’aspirinetta, con l’eparina con il cortisone in epoca addirittura premestruale e assumere l’acido folico. L’acido folico già metilato è l’unico che può in qualche modo ovviare alla risalita dell’omocisteina. Nel momento in cui si individuano il follicolo o più follicoli, l’intervento della gonadotropina e l’utilizzo di progesterone ad altissime dosi – spesso associato a magnesio – sicuramente contribuisce a risolvere buona parte delle anomalie.

La prevenzione primaria della salute, inclusa quella riproduttiva, è fondamentale e l’informazione ha un ruolo chiave, soprattutto sui giovani.

Il “Progetto Prevenzione Salute Riproduttiva” proposto dalla SIRU-Società Italiana di Riproduzione Umana in collaborazione con la Rete della Fertilità di Caltanissetta è un esempio concreto di come si possa stimolare nei giovani la riflessione su un tema così importante per il loro futuro.

Ce lo illustra la Dottoressa Maria Giuseppina Picconeri, ginecologa membro del Direttivo Nazionale S.I.R.U. e Responsabile del Centro di PMA “Nike Medical Center” di Roma.

In cosa consiste il Progetto Prevenzione Salute Riproduttiva?

Si tratta di un progetto volto a sensibilizzare le nuove generazioni, i genitori del futuro, sull’importanza della cura della propria salute e della propria fertilità, affinché possano effettuare scelte consapevoli e responsabili nell’ambito della propria vita sessuale e riproduttiva.

Troppo spesso, infatti, i giovani non sono consapevoli dell’impatto che uno stile di vita corretto, una sessualità responsabile, anche l’inquinamento ambientale, possono avere sulla loro capacità di generare una vita.

Perché il progetto è così importante per SIRU?

La SIRU è impegnata da anni ad affrontare la formazione e l’informazione sulla Salute Riproduttiva negli adolescenti, al fine di prevenire stili ed abitudini di vita correlabili all’insorgenza di patologie dell’apparato riproduttivo in età adolescenziale che poi, in età adulta, possono condurre a condizioni di ipofertilità o sterilità, compromettendo il progetto genitoriale di una coppia.

Il progetto intende contribuire anche ad affrontare il tema della denatalità che, in Italia, è oramai un problema strutturale che sta provocando una pericolosa riduzione della popolazione.

Com’è strutturato il progetto?

Il progetto si realizza in due fasi differenti, con il contributo del personale sanitario coinvolto nell’attività clinico-scientifica della SIRU (Ginecologi, Andrologi, Ostetriche, Biologi, Nutrizionisti, Psicologi). La SIRU, avvalendosi anche dell’esperienza maturata dalla Rete della Fertilità di Caltanissetta, mette a disposizione l’esperienza maturata e le professionalità necessarie per sostenere le diverse fasi del progetto.

Ci parli del Progetto-pilota

Abbiamo dato vita ad un progetto-pilota, una prima esperienza istituzionale che ha creato un network territoriale tra Enti locali e strutture sanitarie al fine di creare team multidisciplinari per portare ai giovani delle scuole medie inferiori e superiori, in maniera integrata, i temi della salute riproduttiva, dell’affettività e della sessualità.

Abbiamo coinvolto in totale 250 giovani in 12 classi di 1 scuola, di età compresa tra i 15 e i 16 anni.

I risultati sono sorprendenti, ci auguriamo che il Ministero della Salute e il Ministero dell’Istruzione, ciascuno per competenza, promuovano e sostengano l’iniziativa coinvolgendo le Regioni, le ASP/ASL, gli Uffici Scolastici Regionali e tutte le altre Istituzioni di pertinenza.

Come si è articolata la prima fase?

La prima fase era rivolta alle classi III degli istituti scolastici superiori, con l’obiettivo generale di promuovere un atteggiamento positivo e responsabile nei confronti della sessualità, della gestione delle emozioni e dell’emotività e della propria salute riproduttiva.

I docenti di scienze hanno “ospitato” i moduli teorici tenuti dal personale sanitario. I ragazzi hanno partecipato a turno, diventando loro stessi docenti presso i compagni di classe – nel corso di moduli intermedi – di quanto acquisito su temi quali l’affettività, la salute, la salute riproduttiva, la contraccezione, le malattie sessualmente trasmesse, le abitudini alimentari, senza trascurare ruolo e funzione dei consultori sul territorio.

L’ultimo incontro era dedicato all’esposizione dei lavori di gruppo realizzati dai ragazzi.

Nella prima fase sono state coinvolte 12 classi, con 24/25 partecipanti per ognuna. La presenza dei ragazzi agli incontri è stata del 90%.

Qual è stato l’impatto della metodologia peer education utilizzata?

La metodologia didattica di peer education ha riscosso enorme successo, in termini di interesse, coinvolgimento ed efficacia nell’acquisire i contenuti affrontati.

Ci parli della seconda fase

Le attività previste nella seconda fase sono rivolte alle classi del III dell’anno successivo delle stesse scuole superiori con l’obiettivo generale di informazione, tutela della salute riproduttiva e sessuale maschile e femminile e prevenzione per i giovani, ovvero i futuri genitori di domani.

Com’è articolata?

 L’informazione, a questo punto, viene ottenuta direttamente dai loro peer (studenti dell’anno precedente) con la supervisione dei Tutor (Specialisti S.I.R.U e Professori di scienze dell’Istituto stesso).

Nell’arco di 12 mesi si tengono degli incontri con gli operatori sanitari, organizzati presso centri PMA o i centri universitari.

A tutti si offre la possibilità di svolgere un tirocinio informativo presso centri italiani di PMA.

Secondo un recente rapporto OMS una persona adulta su sei nel mondo soffre di infertilità nel corso della vita. L’enorme percentuale di persone colpite mostra la necessità di ampliare l’accesso alle cure per la fertilità.

Una persona su sei nel mondo, circa il 17,5% della popolazione adulta, soffre di infertilità nel corso della vita: è quanto emerge dal rapporto “Infertility prevalence estimates”, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Il report

L’obiettivo del report è di fornire delle stime sulla prevalenza regionale e globale dell’infertilità attraverso l’analisi di tutti gli studi di rilievo prodotti tra il 1990 e il 2021.

“Questo rapporto è il primo del suo genere in un decennio e rivela un’importante verità: l’infertilità non discrimina.” Questo il commento del direttore generale dell’OMS Tedros Ghebreyesus, che aggiunge: “Per milioni di persone in tutto il mondo “il percorso verso la genitorialità può essere difficile, se non impossibile” e questo “indipendentemente da dove vivono e dalle risorse di cui dispongono. L’enorme percentuale di persone colpite – aggiunge – mostra la necessità di ampliare l’accesso alle cure per la fertilità e garantire che questo problema non sia più messo da parte nella ricerca e nella politica sanitaria”.

Infertilità e accesso alle cure

L’infertilità, definita dall’OMS come la mancata gravidanza dopo 12 mesi di rapporti sessuali regolari non protetti, “può causare un disagio significativo, stigma e difficoltà finanziarie, influenzando il benessere mentale e psicosociale delle persone“ – si precisa nel rapporto.

Dai dati emerge che circa il 17,5% della popolazione adulta mondiale soffre di infertilità, con una variazione limitata nella prevalenza tra le Regioni, stimata al 17,8% nei Paesi ad alto reddito e al 16,5% nei Paesi a basso e medio reddito. Il rapporto evidenzia inoltre una mancanza di dati in molti Paesi ed esorta una maggiore disponibilità di cifre nazionali.

Nonostante l’entità del problema, le soluzioni per la prevenzione, la diagnosi e il trattamento dell’infertilità, comprese le tecnologie di riproduzione assistita come la fecondazione in vitro, rimangono sottofinanziate e inaccessibili per molte persone.

“Migliori politiche e finanziamenti pubblici possono migliorare significativamente l’accesso alle cure” – afferma l’OMS.

 

Fonti:

ANSAOms: una persona su 6 nel mondo soffre di infertilità.

WHO – World Health Organization, Infertility Prevalence Estimates, 1990-2021. Disponibille al link: https://www.who.int/publications/i/item/978920068315 

 

La possibilità di accesso alla vaccinazione contro Covid-19 per le donne in gravidanza e allattamento è stata sin dall’inizio della campagna vaccinale oggetto di discussione da parte delle società scientifiche nazionali e internazionali.

A causa della mancanza di dati di efficacia e sicurezza in questa popolazione, la vaccinazione è stata inizialmente sconsigliata alle donne in gravidanza, seppur non controindicata. Nel tempo, un numero crescente di donne in gravidanza si è sottoposto al vaccino o perché impegnate in ambito sanitario o perché appartenenti a categorie di pazienti considerati ad alto rischio.

Ad oggi i dati raccolti sono numerosi e rassicuranti: non vi sono evidenze di effetti avversi o complicanze né per le donne né per il feto. Per questo motivo e considerando gli effetti negativi della malattia Covid-19 sulla madre e sul feto, le società scientifiche Americane prima e quelle Italiane poi hanno scelto di raccomandare la vaccinazione alle donne in gravidanza e allattamento. (1)

La Circolare del Ministero della Salute

La Circolare del 24 Settembre 2021 del Ministero della Salute riporta: “Si raccomanda la vaccinazione anti SARS-CoV-2/COVID-19, con vaccini a mRNA, alle donne in gravidanza nel secondo e terzo trimestre. Relativamente al primo trimestre, la vaccinazione può essere presa in considerazione dopo valutazione dei potenziali benefici e dei potenziali rischi con la figura professionale sanitaria di riferimento. La vaccinazione anti SARS-CoV-2/COVID-19 è altresì raccomandata per le donne che allattano, senza necessità di sospendere l’allattamento”. (2)

La vaccinazione è raccomandata in modo particolare nelle donne che presentano fattori di rischio associati a maggiore possibilità di sviluppare forme gravi di Covid-19. Ne sono un esempio l’età superiore ai 30 anni, l’obesità, il diabete e altre comorbidità. (2)

Nonostante le raccomandazioni, il tema della vaccinazione in gravidanza rimane delicato. Infatti, sono ancora molti i dubbi e le preoccupazioni delle neo e future mamme. Ce ne parla il Prof. Mauro Schimberni, Specialista in Ginecologia ed Ostetricia e Medicina della Riproduzione, fondatore e direttore clinico di BioRoma.

 

Quali sono i rischi dell’infezione da Covid-19 in gravidanza? Perché è importante vaccinarsi?

 

 

Quali sono le maggiori preoccupazioni delle donne in gravidanza o in cerca di una gravidanza in merito alla vaccinazione anti Covid-19?

 

 

 

In quale periodo della gravidanza è indicato sottoporsi alla vaccinazione anti Covid-19?

 

 

 

 

 

 

Fonti:

  1. Istituto Superiore di Sanità – EpiCentro. Vaccinazione contro il COVID-19 in gravidanza e allattamento. Disponibile al link: https://www.epicentro.iss.it/vaccini/covid-19-target-gravidanza-allattamento
  2. Ministero della Salute. Circolare del 24/09/2021 Indicazioni ad interim su “Vaccinazione contro il COVID-19 in gravidanza e allattamento”. Disponibile al link: https://www.trovanorme.salute.gov.it/norme/renderNormsanPdf?anno=2021&codLeg=82930&parte=1%20&serie=null

Aumentano i casi di diabete in gravidanza: è quanto emerge da una ricerca presentata dai ricercatori della SID – Società Italiana di Diabetologia al 56mo congresso della EASD, Associazione Europea per lo Studio del Diabete. Sembra, infatti, che le donne che presentano diabete gestazionale (GDM) in gravidanza siano sempre più numerose. La conseguenza è strettamente connessa all’aumento dell’obesità, anche in età riproduttiva, e alla prevalenza del diabete tipo 2.

La ricerca

I ricercatori hanno studiato una casistica di oltre 600 pazienti con diabete gestazionale. Nella ricerca, hanno considerato questi parametri: le caratteristiche metaboliche delle madri, gli esiti materno-neonatali e la salute delle donne dopo il parto. La ricerca si è svolta presso l’Azienda Ospedaliera di Perugia e ha considerato donne trattate nel triennio 2013-2015, rispetto a quelle gestite nel periodo 2016-2018. Intervistata da Repubblica, la dottoressa Sara Parrettini, della Struttura Complessa di Endocrinologia e Malattie Metaboliche, Azienda Ospedaliera di Perugia, ha commentato: “Ma le caratteristiche metaboliche delle gestanti – afferma – negli ultimi anni si stanno modificando. Aumentano le donne con insulino-resistenza e i risultati della curva da carico glucidico sono diversi da quelli delle donne che sviluppavano diabete in gravidanza fino a qualche anno fa”.

La gestione personalizzata della gravidanza

Nella stesa intervista, la dottoressa Parrettini ha concluso: “Le caratteristiche metaboliche delle donne in gravidanza devono essere considerate sin dall’inizio della cura della paziente. E’ necessario gestire in maniera personalizzata la gravidanza complicata dal GDM”. L’obiettivo di questo approccio è raggiungere “esiti neonatali sovrapponibili a quelli di una gravidanza fisiologica”. Inoltre, consentirebbe di “predisporre strategie di protezione per la salute futura, mirate a ridurre il rischio di progressione verso qualsiasi forma di iperglicemia post-gravidanza”.

Anche la dottoressa Elisabetta Torlone, responsabile Servizio di Diabete e Nutrizione in Gravidanza della stessa struttura ospedaliera ha commentato i risultati. “La gravidanza rappresenta un momento fondamentale nella vita di una donna.  La diagnosi di diabete gestazionale pone un grave problema di salute globale a causa delle relative complicanze micro e macro-vascolari, del successivo diabete di tipo 2 e dell’impatto sulla salute futura delle giovani generazioni. La nostra casistica suggerisce di porre attenzione alle modifiche dell’OGTT sia in gravidanza che nel follow up post parto, per definire delle strategie sempre più specifiche per la prevenzione del diabete di tipo 2 e delle patologie metaboliche”.

Il commento della SID

Il Presidente eletto della SID Agostino Consoli ha commentato i risultati della ricerca. “Il diabete gestazionale è in aumento e diventa un problema sempre più importante anche perché maggiormente prevalente in etnie che sono sempre più rappresentate nel nostro Paese grazie all’aumento dell’immigrazione e perché più prevalente in donne che giungono alla gestazione in età meno giovane, come sempre più accade nelle società occidentali. Per fortuna in molti dei nostri Servizi di Diabetologia esistono ambulatori dedicati a questa condizione, che si avvalgono della collaborazione di diabetologi, ginecologi e neonatologi.”
Da anni è in atto una stretta collaborazione tra SID ed AMD. Le due Società Scientifiche hanno costituito, insieme, un gruppo di studio dedicato alle problematiche del diabete gestazionale. Questa collaborazione ha prodotto e continua a produrre lavori scientifici molto rilevanti di livello internazionale.

Fonte: Repubblica.it

Malattie autoimmuni e maternità: prende il via il 1° settembre #anchiomammaTALK, un ciclo di 8 incontri online con medici specialisti e rappresentanti dei pazienti. L’appuntamento è sul profilo Facebook di #anchiomamma

Un programma ricco di approfondimenti

Gli argomenti da approfondire sono molti: l’impatto delle patologie sulla fertilità, il counseling, la gestione della terapia in gravidanza, la sessualità, la procreazione medicalmente assistita. Gli incontri daranno voce alle pazienti e ad autorevoli esperti su ciò che è importante sapere per chi ha una malattia autoimmune e desidera un figlio. Inoltre, si farà il punto sulla medicina di genere nelle malattie autoimmuni e su come la telemedicina può essere di supporto a chi convive con le patologie croniche autoimmuni, reumatologiche e dermatologiche.

Il programma completo è disponibile sul sito www.anchiomamma.it, alla pagina “La Parola agli Esperti“.

Malattie autoimmuni e gravidanza

Le malattie autoimmuni colpiscono frequentemente le donne in età fertile, quando si fanno progetti per il futuro. Talvolta influenzano negativamente il desiderio di creare una propria famiglia fino a condizionare la vita di coppia. Le pazienti temono che l’andamento ciclico della patologia o la terapia farmacologica possano danneggiare il nascituro, che il figlio possa “ereditare” la patologia, che la gravidanza possa interrompere una fase di remissione duratura e che lo stato di salute non permetta di accudire il bambino e di accompagnarlo nella crescita.

Fino a non molto tempo fa, la gravidanza era fortemente sconsigliata. Oggi, invece, diventare mamma con una malattia autoimmune reumatologica o dermatologica è un sogno realizzabile. I medici dispongono di opzioni terapeutiche con un alto profilo di sicurezza ed efficacia, che possono essere usate in gravidanza senza rischi per il feto. Sotto la guida degli specialisti, quindi, è possibile programmare una gravidanza, gestendo la malattia autoimmune.

Il progetto #anchiomamma

#anchiomamma è un progetto di informazione nato per sostenere le donne che vivono con una malattia autoimmune, reumatologica o dermatologica, che desiderano diventare mamma. L’obiettivo è informare in modo corretto, chiaro e completo le donne che si ammalano in età fertile, affinché nessuna rinunci al proprio sogno di diventare mamma.

È promosso dalle associazioni di pazienti ANMAR (Associazione Nazionale Malati Reumatici Onlus), APIAFCO (Associazione Psoriasici Italiani Amici della Fondazione Corazza) e APMARR (Associazione Nazionale Persone con Malattie Reumatologiche e Rare), con il supporto non condizionato di UCB Pharma S.p.A. e di IBSA Farmaceutici Italia S.r.l.

Un board scientifico composto da medici specialisti (reumatologi, dermatologi, ginecologi) garantisce la correttezza dei contenuti.

Il progetto #anchiomamma è coordinato da Media For Health.

 

Alcol e gravidanza sono nemici. Almeno sei mesi senza alcol prima del concepimento per gli uomini e un anno per le donne: è quanto consigliano agli aspiranti genitori gli studiosi di una ricerca pubblicata sulla European Journal of Preventive Cardiology, una rivista della Società Europea di Cardiologia (ESC). L’obiettivo è la protezione da difetti cardiaci congeniti.

Questa nuova ricerca ha analizzato ben 55 studi, che raccoglievano i dati di quasi 42mila bambini con cardiopatia congenita e di quasi 300mila senza.

Rispetto agli astemi, i futuri genitori che bevono alcolici nei tre mesi prima della gravidanza (e durante il primo trimestre per le madri) vedono il rischio di malattie cardiache congenite aumentato del 44% nei padri e del 16% per le madri. Tale rischio sale al 52% negli uomini nel caso di binge drinking, cioè del consumo di almeno 5 drink in una sola “serata”.

Il binge drinking dunque, in chi desidera diventare genitore, è un comportamento ad alto rischio e pericoloso per la sua salute, oltre che per quella del nascituro, che corre un maggior rischio di nascere con un difetto cardiaco.

 

Le conseguenze del consumo di alcol sul nascituro

L’alcol in gravidanza rappresenta un noto teratogeno. Il suo consumo in gravidanza, e i correlati difetti alla nascita, sono ritenuti uno dei maggiori problemi di sanità pubblica nella maggior parte dei Paesi del mondo. Questa sostanza, si legge su Epicentro, il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica, è un fattore di rischio di successivi problemi mentali del nascituro, anche a dosi inferiori a un bicchiere alla settimana. Il consumo moderato (1-2 bicchieri al giorno), può portare a disturbi dell’attenzione e del comportamento nell’infanzia. Ad alte dosi ripetitive vi è la probabilità del 6-10% che il feto sviluppi la sindrome feto-alcolica. Il disturbo fetale dello spettro alcolico (FASD) comprende una serie di manifestazioni cliniche che possono comparire in persone che sono state esposte all’alcol durante la gestazione della madre.

Circa un bambino su quattro con FASD ha una cardiopatia congenita, indicando che anche l’alcol potrebbe essere coinvolto in questi disturbi. In particolare, rispetto a quanto avviene per gli astemi, il consumo materno di alcol è correlato a un rischio maggiore del 20% di una combinazione di quattro anomalie nella struttura del cuore, chiamata tetralogia di Fallot.

Va sottolineato che le malattie cardiache congenite sono tra i difetti di nascita più comuni. Queste condizioni sono la principale causa di morte perinatale. Inoltre, possono aumentare la probabilità di malattie cardiovascolari pure in età avanzata, anche dopo un trattamento chirurgico.

 

I consigli pratici

Le coppie che stanno provando ad avere un bambino dovrebbero limitare fortemente l’alcol.

In particolare, gli uomini non dovrebbero consumarlo per almeno sei mesi prima del concepimento, mentre le donne dovrebbero smettere di bere un anno prima ed evitarlo durante la gravidanza. Inoltre, i ricercatori hanno osservato un graduale aumento del rischio di malattie cardiache congenite con l’aumento del consumo di alcol da parte dei genitori.