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PMA centri: intervista alla dr.ssa Mattei, Centro Melloni di Milano

Procreazione medicalmente assistita: come consultare il Registro Nazionale istituito presso l’Istituto Superiore della Sanità.

La coppia infertile può informarsi sulle tecniche di PMA praticate nei diversi centri italiani e conoscere gli esiti e la resa dei cicli di PMA consultando il pubblico Registro Nazionale istituito presso l’Istituto Superiore della Sanità. La Dr.ssa Mattei, centro Melloni di Milano, intervenuta di recente al seminario annuale sulla PMA sponsorizzato da Ferring, ci spiega che cos’è il Registro e che tipo di informazioni e dati qualitativi e quantitativi si possono consultare.

1. Quante coppie fanno ricorso alla procreazione medicalmente assistita in Italia, è un fenomeno costante, in aumento o in diminuzione?

E’ un fenomeno in costante aumento. Ogni anno aumenta il numero delle coppie che si sottopongono a trattamenti di fecondazione assistita di primo e di secondo livello.
Nel 2010 le coppie che hanno fatto ricorso alle tecniche PMA di primo livello sono state più di 19.000, mentre più di 44 mila hanno fatto ricorso a tecniche di fecondazione assistita di secondo e terzo livello.

2. Quanti bambini nascono ogni anno in Italia grazie alle tecniche della procreazione medicalmente assistita?

Secondo la Relazione Ministeriale del 28 giugno 2012, nel 2010 sono nati più di 12.000 bambini grazie alla procreazione medicalmente assistita. Nel Registro Nazionale sono riportati i dati riferiti ai nati a seguito del ricorso delle tecniche PMA di primo livello, che fondamentalmente sono le tecniche di inseminazione intrauterina –IUI, che prevedono l’introduzione del liquido seminale all’interno della cavità uterina, e quelli nati a seguito del ricorso alle tecniche PMA di secondo e terzo livello, sia a fresco che da scongelamento, che sono le tecniche di fertilizzazione maggiore, vale a dire la fecondazione in vitro e il trasferimento dell’embrione.

3. Sono dati sensibilmente diversi da quelli registrati nei paesi del Nord Europa?

I dati non sono così diversi però sono difficilmente paragonabili. I dati che abbiamo dal registro europeo raccolti in 19 paesi risalgono al 2008, quindi con una discrepanza di due anni rispetto a quelli raccolti in Italia. [seodiv] Il registro del 2008 dimostra che i cicli europei sono stati complessivamente più di 350.000; nel 2010 in Italia sono stati realizzati nel totale circa 91.000 cicli per IUI e FIVET.

4. Quali sono le probabilità di riuscita di entrambe le tecniche?

Diciamo che mentre per le tecniche PMA di primo livello abbiamo dal 12 al 14% di resa in termini di gravidanza, per quanto riguarda le tecniche PMA di secondo livello la resa è senz’altro maggiore, diciamo che si modula tra un 22 e il 30% e ovviamente però all’interno di questo % sussiste una graduatoria legata fondamentalmente all’età materna.

5. E quali sono i principali fattori che determinano un esito favorevole?

Il principale tra tutti è l’età dell’ovocita e quindi ovviamente l’età materna. Purtroppo l’affluenza alle tecniche PMA sta interessando sempre più le fasce più alte di età e questo penalizza la tecnica PMA qualunque essa sia, perché l’età dell’ovocita e quindi la senescenza ovocitaria è il primo grosso aspetto che dà una sicurezza sull’eventuale successo riproduttivo della coppia. Anche la patologia che sottende la sterilità gioca un ruolo notevole, nel senso che una endometriosi che accerchia il livello pelvico in maniera severa, è quella che dal punto di vista prognostico, indipendentemente dall’età della donna, ha esiti meno felici.

6. Qual è l’età della ricerca del primo figlio?

Si sta spostando sempre più avanti l’età della ricerca del primo figlio, stiamo arrivando oltre i 35 anni.

7. Come può la coppia ottenere delle informazioni sui centri che praticano la PMA?

In Italia esiste una grossa poliedricità di centri autorizzati alla PMA ubicati nel nord, nel centro e nel sud Italia e sono tutti presenti nell’elenco del Registro Nazionale Procreazione Medicalmente Assistita istituito presso l’Istituto Superiore della Sanità Istituto Superiore di Sanità: Registro Nazionale Procreazione Medicalmente Assistita – Centri in Italia

8. Che cos’è il Registro Nazionale della Procreazione Medicalmente Assistita?

E’ un Registro ufficiale che fornisce i dati sulle attività svolte dai centri di PMA pubblici, privati e convenzionati sia per il primo, secondo e terzo livello di PMA. Ogni anno questi dati vengono presentati e commentati nella Relazione annuale del Ministro della Salute al Parlamento per quanto riguarda le normative sulla legge sulla PMA, secondo la legge 40/2004.

9. Perché è stato creato e quali sono i suoi obiettivi?

La finalità è quella di monitorare tutta l’attività svolta dai centri PMA secondo le indicazioni dell’art.11 della legge 40/2004, dalle linee guida e dagli emendamenti dati nel 2009 dalla Corte Costituzionale. In base alla legge i centri di PMA inviano annualmente all’Istituto Superiore di Sanità dati relativi all’età delle donne che intraprendono la PMA, alla tipologia della motivazione per cui hanno affrontato il ciclo, al numero dei cicli fatti, agli esiti dei cicli, al tipo di gravidanza, aborto, effetti collaterali; successivamente l’Istituto Superiore della Sanità aggrega i dati per regione, e l’insieme di questi dati costituisce l’oggetto della relazione annuale del Ministro della Salute sulla PMA.

10. Come vengono rese pubbliche le informazioni raccolte nel registro?

I cittadini e quindi le coppie che vorrebbero ricorrere alla PMA possono aver accesso ai dati raccolti dal registro e se sì a quali?
All’Istituto Superiore di Sanità può accedere qualsiasi cittadino, digitando Istituto Superiore di Sanità: Registro Nazionale Procreazione Medicalmente Assistita si accede all’elenco dei centri PMA e alle rispettive tecniche PMA che i vari centri espletano.

Si può consultare anche la relazione ministeriale annuale che riporta tutti i dati sui risultati dei vari cicli, analisi condotte a livello nazionale e regionale e non per singolo centro di PMA. Non esistono dati sulle rese di inseminazione o fivet che sono riferite ad uno specifico centro di PMA, i dati consultabili sono scorporati per regione e poi accorpati nel numero dei pazienti, nel numero dei cicli, numero dei risultati ottenuti, a livello regionale e nazionale. I centri di PMA inseriscono i dati nel registro tramite codice, ma non hanno la possibilità di vedere ed analizzare i dati relativi agli esiti dei cicli inseriti dagli altri centri PMA, possono esaminarli in maniera aggregata.

Del resto non avrebbe senso confrontare le singole rese dei centri PMA perché esse non possono essere paragonabili, in quanto gli esiti favorevoli dei cicli di PMA dipendono innanzitutto dall’età della donna e dalla tipologia della sterilità che presenta la coppia. Se ad un centro PMA si rivolge un’utenza già avanti con gli anni, chiaramente la resa statistica di cicli di PMA sarà notevolmente più bassa rispetto ad un centro frequentato da un parco clienti più giovani.
In Lombardia facciamo circa ¼ di tutta la procreazione assistita italiana ed abbiamo tantissimi pazienti con liste di attesa lunghe, non ci interessa la competizione tra centri PMA, ci interessa crescere in maniera uniforme e portare avanti le tecniche nella maniera migliore possibile .

11. Sussistono, secondo Lei, delle differenze tra i centri o sono uguali ed offrono tutti gli stessi servizi?

Ci sono centri che espletano solo l’attività di primo livello, di inseminazione, e centri PMA che svolgono quelle di primo, di secondo e di terzo livello, dove si manipola anche il maschio, nel senso che si possono fare prelievi direttamente dal testicolo.

12. Anche negli altri paesi europei esiste il Registro e se sì da quanto tempo?

I registri europei hanno una diversa connotazione, ci sono registri che connotano le pazienti già addirittura dagli anni 80’, registri che hanno cominciato come noi in funzione di una legge. In assenza di legge tutti i centri PMA ovviamente avevano le loro registrazioni ma non erano tenuti a renderli disponibili per l’ente pubblico. In Italia il registro è iniziato nel 2004 proprio a seguito della emanazione della legge 40/2004 con cui si è instaurata questa dimensione di valutazione e di controllo, di divulgazione dei risultati delle tecniche di PMA.

13. 121.708 trattamenti svolti nei centri italiani per la PMA tra il 2005 e il 2007, sono pochi o sono tanti rispetto agli altri paesi europei?

Sono tanti, nel senso che se noi consideriamo i cicli europei del 2008, possiamo dire che sono stati fatti 947 cicli per milione di abitante; se consideriamo i dati presentati nella relazione ministeriale del 2010, in Italia sono stati realizzati 377 cicli medio per 100.000 donne in età feconda dove l’età feconda è quella compresa tra 15-49 anni ex ISTAT. [/seodiv]

Parla della Fivet il Prof. Rubens Fadini, che dirige il “Centro di Medicina della Riproduzione Biogenesi” presso “Istituti Clinici Zucchi” di Monza e “Istituti Ospedalieri Bergamaschi”.

Al seminario annuale promosso dall’azienda farmaceutica Ferring “Esperienze di Procreazione Medico Assistita in Lombardia” è intervenuto il Prof. Rubens Fadini sulla fecondazione in vitro, affrontando le tematiche connesse al trasferimento degli embrioni, alla possibilità del loro congelamento, alle tecniche di scongelamento.

Di seguito riportiamo l’intervista al Prof. Fadini sulla Fecondazione in Vitro.

1. In cosa consiste la tecnica della fecondazione in vitro?

In senso stretto, l’espressione “fecondazione in vitro” si riferisce all’ottenimento in laboratorio dell’unione (fecondazione) della cellula femminile (oocita) con quella maschile (spermatozoo) con la formazione di un embrione.
Più estesamente, è un approccio terapeutico specifico all’infertilità di coppia. Essa rappresenta, infatti, la procedura di “procreazione medicalmente assistita” (PMA) di secondo livello, cioè un metodo ad alta tecnologia per la terapia dell’infertilità.
Dopo aver proceduto alla diagnosi dell’infertilità, mediante un semplice iter diagnostico, e aver osservato precise indicazioni e regole la fecondazione in vitro (FIVET e ICSI) è proposta alla coppia per favorire la soluzione dell’infertilità.
In preparazione alla procedura, la donna è sottoposta a stimolazione ovarica, a monitoraggio ecografico e ormonale per circa 12-14 giorni. E’ sottoposta, quindi, a prelievo degli ovociti che sono inseminati in laboratorio (in vitro) con gli spermatozoi del partner, allo scopo di generare embrioni che, dopo due o cinque giorni di sviluppo in vitro, sono trasferiti nell’utero della donna.

2. Ruolo della stimolazione ovarica, rischi possibili e utilità di una personalizzazione della stimolazione

La capacità di un singolo oocita umano di generare una gravidanza è fisiologicamente limitata, anche nelle donne fertili. Per tale ragione, la PMA si fonda sulla necessità di eseguire una “stimolazione ovarica”.
Utilizzando l’ormone FSH (ormone che stimola la crescita dei follicoli) è possibile indurre la crescita di numerosi follicoli (multi-follicolare) che sono precisamente “temporizzati” nel loro sviluppo (monitoraggio ecografico e ormonale della crescita follicolare multipla) e quindi prelevati (prelievo degli ovociti dai follicoli ovarici). Il maggior numero di ovociti compensa la ridotta capacità di sviluppo e fecondazione in vitro del singolo oocita.
In alcuni casi, può accadere che la stimolazione ovarica induca una risposta elevata, consistente nella crescita di un eccessivo numero di follicoli ovarici e, per effetto di ciò, si può manifestare la cosiddetta “sindrome da iperstimolazione ovarica”. Condizione questa che può e deve essere evitata con un’appropriata scelta terapeutica, considerando i peculiari fattori di rischio di ogni singola donna.
Quest’approccio terapeutico tiene conto di alcuni importanti elementi, quali l’età, la riserva ovarica (valutata sulla base del dosaggio ematico degli ormoni FSH e Antimulleriano), il peso e la personale storia clinica. La preliminare e attenta valutazione di tutti questi fattori consente di “personalizzare” la terapia identificando la dose appropriata dei farmaci da somministrare per ottenere una sufficiente crescita multi-follicolare impedendo l’eccessiva risposta ovarica con le sue conseguenze.
Purtroppo, al contrario, c’è una categoria di pazienti che ha una scarsa o nulla probabilità di sviluppare una “sindrome da iperstimolazione ovarica”, queste sono le pazienti che hanno un’insufficiente riserva ovarica ed hanno anche scarsa possibilità di rispondere alla stimolazione ormonale producendo sempre un inadeguato numero di follicoli. È, comunque, importante individuare anche questa tipologia di pazienti per identificare la giusta quantità/qualità dei farmaci.

3. Può capitare che la donna, a seguito di stimolazioni ovariche, produca molti ovociti. Quanti ovociti si possono prelevare e fecondare in vitro?

Per le ragioni sopra discusse è auspicabile ottenere un certo numero di oociti tra cui poter scegliere i più idonei da sottoporre a fecondazione in vitro. Si pensa che il numero ideale vari da otto a quindici. In quanto, alcuni di questi oociti, potranno non essere idonei, altri non si feconderanno e alcuni, dopo la fecondazione, non produrranno embrioni evolutivi. Attualmente, dopo le modifiche alla Legge 40 apportate dalla Corte Costituzionale nel 2009, Il numero di ovociti da sottoporre a inseminazione non è più regolato dalla legge, ricordo che prima di questa sentenza potevano essere fecondati non più di 3 ovociti. Il numero di ovociti da utilizzare è a discrezione del medico e varia in relazione all’età femminile e la precedente storia clinica della coppia.

4. Laddove se ne fecondino più di uno, quanti embrioni vengono trasferiti?

Potendo utilizzare un maggior numero di ovociti risulta altamente probabile che si ottengano diversi embrioni e quindi si ponga la scelta sul numero di embrioni da trasferire. Alcune legislazioni del nord Europa impongono di trasferire non più di un embrione per volta (cosiddetto “trasferimento di un singolo embrione”). In altri paesi europei, come il nostro, questo principio non è regolamentato per legge ma la scelta è lasciata al medico, previo accordo con la coppia, dopo aver discusso rischi e benefici.
In Europa, comunque, vi è un generale accordo che gli embrioni da trasferire dovrebbero essere al massimo due. Si può, comunque, decidere di trasferire fino a tre/quattro embrioni in casi assolutamente particolari, in relazione alla qualità degli embrioni stessi, dell’età della donna e della storia clinica della coppia. Questa prudente modalità di approccio, come detta la sentenza della Corte Costituzionale del 2009, è ispirata dalla necessità di evitare l’insorgenza di gravidanze plurime (tre o più gemelli) che rappresentano un grave rischio per la salute della donna e dei nascituri.

5. La legge italiana pone dei limiti sul trasferimento degli embrioni in utero?

No, nessuna restrizione. La nostra legislazione, dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 2009, che ha modificato sostanzialmente l’approccio clinico e biologico alla PMA in Italia, stabilisce che sia il medico, informata la coppia, a prendere la decisione per il “benessere” della donna (ovvero nel rispetto dell’etica medica ottenere la maggiore efficacia della procedura ottenuta col minor rischio per la donna).

6. Quanti embrioni è possibile trasferire in utero? E quale è secondo lei il numero sopportabile e di successo…

Il risultato “ideale” di un trattamento di PMA è la nascita di un bambino sano a termine di gravidanza. Le gravidanze gemellari dovrebbero essere contenute in una misura del 10-20% rispetto a tutte le gravidanze, mentre si dovrebbe fare del proprio meglio per evitare le gravidanze trigemine, che in ogni caso non dovrebbero superare 1% del totale. Ogni centro di PMA dovrebbe essere in grado di sviluppare un metodo, basato sulla propria esperienza, in modo da indentificare il numero adeguato di embrioni da trasferire in ciascuna paziente, al fine di rendere massime le possibilità di ottenere la gravidanza, riducendo allo stesso tempo il rischio di gravidanze plurime.

7. Cosa avviene degli altri embrioni fecondati? Gli embrioni non utilizzati, si possono tutti congelare o devono avere caratteristiche specifiche, e poi come vengono conservati e per quanto tempo è possibile conservarli?

Gli embrioni in sovrannumero non utilizzati per il trasferimento in utero nello stesso ciclo in cui sono stati prodotti (cosiddetto “ciclo fresco”) possono essere conservati, a patto che abbiano adeguate caratteristiche morfologiche e di sviluppo. Bisogna, infatti, considerare che una parte consistente di embrioni prodotti in laboratorio, analogamente a quanto avviene naturalmente, non è idonea né al trasferimento in utero né alla conservazione.
Con le attuali efficienti tecniche di conservazione di cellule e tessuti, gli embrioni idonei sono facilmente conservati in azoto liquido a -196°C (cosiddetta crioconservazione) e possono essere mantenuti in appositi contenitori senza danno per diversi decenni.
Il congelamento degli embrioni è una procedura molto efficace e utile poiché riduce i rischi di plurigemellarità poiché consente di limitare il numero di embrioni da trasferire sul ciclo fresco crioconservando il sovrannumero. Quest’approccio, evitando i rischi, aumenta le probabilità di successo della PMA perché permette di sommare un maggior numero di tentativi (ovvero: possibilità di eseguire più tentativi con una sola procedura di stimolo e prelievo di ovociti). Attualmente, l’efficacia, in termini di gravidanze, utilizzando gli embrioni “congelati” è simile a quello ottenuta con embrioni “freschi”.

8. Quali sono i criteri di valutazione della qualità di un embrione?

La morfologia e la dinamica dell’embrione (ossia la sua forma con la presenza di frammenti e il numero di cellule presenti nell’embrione relativamente all’età dell’embrione stesso) sono attualmente i criteri più attendibili mediante i quali possiamo prevedere la capacità di un embrione di svilupparsi regolarmente, di impiantarsi nell’utero e di dar luogo a una gravidanza in evoluzione. Gli embrioni sono mantenuti in appositi incubatori e sono regolarmente controllati da esperti embriologi che monitorizzano la morfologia e la dinamica di crescita dell’embrione fino al momento del suo trasferimento (dopo due-cinque giorni in vitro).
Oltre alla competenza di esperti embriologi alcuni centri in Europa, tra cui il nostro, dispongono di un particolare strumento detto “Embryoscope” che consente l’osservazione dell’embrione durante tutta la giornata e la “continua” registrazione della dinamica del suo sviluppo. Questo, da un punto di vista pratico, permette di valutare con maggiore cura lo sviluppo in vitro dell’embrione. L’embryoscope potenzia, quindi, significativamente la nostra capacità di determinare con accuratezza la regolarità della crescita degli embrioni cercando di prevederne il possibile destino.

9. Se una coppia decide di utilizzare un embrione congelato, come avviene lo scongelamento dell’embrione?

L’embrione crioconservato è scongelato con tecnologie specifiche e ben codificate che dipendono dalla tecnica utilizzata per il congelamento. In pratica si controlla, con opportuna strumentazione, la velocità con cui l’embrione passa dalla temperatura dell’azoto liquido (-196°C) a quella ambiente rimuovendo le sostanze (crioprotettori) utilizzate per proteggere l’embrione durante il congelamento e dai possibili danni causati dalle basse temperature. Non tutti gli embrioni recuperano, dopo lo scongelamento, la capacità di continuare lo sviluppo ma la probabilità di sopravvivenza con le moderne tecniche è molto elevata, circa 80-90%.

10. Come viene preparato l’endometrio al transfer dell’embrione?

È possibile trasferire embrioni scongelati nel corso di un ciclo ovarico naturale, monitorando e temporizzando il momento dell’ovulazione, il transfer è eseguito alcun giorni dopo l’ovulazione. In questo modo si sincronizza lo stadio di sviluppo dell’embrione con la capacità recettiva dell’endometrio (il rivestimento mucoso della cavita uterina in cui avviene l’impianto). Questa modalità di preparazione potrebbe risultare organizzativamente impegnativa e rischia di annullare molti trasferimenti perché non tutti i cicli naturali sono idonei.
Pertanto, in alternativa al trasferimento in un ciclo naturale, è possibile guidare la preparazione (la crescita) dell’endometrio mediante la somministrazione sequenziale di estrogeno e progesterone in modo da mimare, indipendentemente dal momento in cui avviene l’ovulazione, gli stimoli ormonali a cui l’endometrio è sottoposto durante un normale ciclo ovarico. Questa modalità richiede alla donna circa 15-20 giorni di preparazione e monitoraggio.

11. Quali sono i fattori che determinano il fallimento dell’impianto?

I fattori che possono impedire l’impianto sono certamente molteplici, anche se rimangono in parte oscuri. Molti embrioni possono svilupparsi in vitro fino al momento del trasferimento in utero ma, poi, subire un arresto prima della fase dell’impianto nell’endometrio o subito dopo. Il non impianto o il precoce arresto può verificarsi per effetto di alterazioni dell’assetto cromosomico (cosiddette aneuploidie ossia uno o più cromosomi in eccesso o in difetto rispetto all’assetto cromosomico normale) analogamente a quanto avviene anche in natura. Bisogna, a questo proposito, ricordare che gli oociti sono generati durante la vita fetale e subiscono una maturazione lunghissima, circa 20-40 anni, che li espone a possibili danni cromosomici. Questa è la ragione per cui le patologie cromosomiche e gli aborti precoci sono maggiormente frequenti nelle donne che concepiscono, anche naturalmente, avanti nell’età.
L’assetto cromosomico, comunque, non spiega tutti i casi di fallimento di impianto. Infatti, embrioni cromosomicamente normali e identificati come tali tramite apposite analisi genetiche eseguite prima dell’impianto (screening di tutti i cromosomi eseguito prima di trasferirli nell’utero materno) non sempre riescono ad annidarsi nell’utero. Probabilmente altri fattori embrionali non-cromosomici contribuiscono a determinare la capacità di impianto.
La recettività dell’endometrio, inoltre, ha un ruolo importante nell’impianto, anche se meno determinante rispetto a quello dell’embrione. L’endometrio è recettivo all’impianto solo per alcuni giorni nel corso dell’intero ciclo mestruale. È possibile in alcuni casi che la recettività dell’endometrio non sia ben coordinata con la capacità d’impianto dell’embrione, anch’essa di durata limitata. Pertanto, una fase inadeguata dell’endometrio (troppo anticipato o ritardato rispetto allo stadio evolutivo dell’embrione) potrebbe essere un causa di fallito impianto.

Lo scorso 2 marzo si è svolto a Milano, l’incontro “Esperienze di Procreazione Medico Assistita in Lombardia”, evento sponsorizzato dall’azienda farmaceutica Ferring.

L’obiettivo dell’incontro, che ha visto la partecipazione della maggior parte dei Centri di Procreazione Medico Assistita presenti in Lombardia, era quello di analizzare, valutare e discutere le esperienze di PMA compiute dai vari centri, esaminando nello specifico dei casi clinici reali. L’evento ha quindi consentito non solo la presentazione delle principali tecniche di PMA, ma anche la discussione sulle loro indicazioni, risultati e complicanze.

Il seminario è stato introdotto dal Prof. Guido Ragni, Fondazione IRCCS Ca’ Granda, Ospedale Maggiore Policlinico di Milano, che oggi abbiamo il piacere di intervistare. Ci piacerebbe approfondire il tema dalla Inseminazione Intrauterina.

1. Buongiorno Dott. Ragni, la ringraziamo per la sua disponibilità a parlarci di Inseminazione Intrauterina. Iniziamo subito col chiederle in che cosa consiste la tecnica dell’inseminazione intrauterina, in particolare le chiederei di spiegarci come avviene, cosa deve fare la coppia per prepararsi all’inseminazione.

La procedura di inseminazione intrauterina è la più semplice tra le procedure di Procreazione Medico Assistita ed è quella che più si avvicina al normale processo di fecondazione in quanto la fecondazione stessa avviene in vivo, cioè nel corpo della donna.

La procedura prevede essenzialmente 3 momenti:

– il primo momento è una blanda stimolazione ormonale che viene eseguita per essere certi dell’ovulazione ed avere anche la certezza di praticare l’inseminazione nel giorno giusto in quanto l’ovulazione verrà monitorata con 3-4 ecografie vaginali nel corso del ciclo. La stimolazione deve essere, come ho detto, molto limitata, blanda,con l’obiettivo di evitare la crescita di più follicoli e questo naturalmente per evitare gravidanze multiple;

– il secondo momento è la preparazione del liquido seminale che consiste nel selezionare in laboratorio gli spermatozoi più mobili. Quindi gli spermatozoi non vengono manipolati ma semplicemente separati. Questi spermatozoi saranno quelli che vengono successivamente inseminati, ovvero inseriti in utero.

– Il terzo ed ultimo momento è per l’appunto l’inseminazione nell’utero con un sottile catetere attraverso il collo dell’utero stesso, degli spermatozoi preparati. La procedura è assolutamente indolore, ambulatoriale, la paziente rimane qualche minuto sul lettino e poi può successivamente praticare la sua normale attività giornaliera.

2. Secondo i dati raccolti, quante coppie riescono ad avere un bimbo grazie ad interventi di primo livello come la IUI?

Nei 300 centri italiani che praticano circa 30.000 cicli di inseminazione ogni anno, i risultati dal 2005 in poi fino al 2011 sono sempre stati molto stabili. Il 10% per ciclo. Attenzione però, per leggere correttamente questo risultato è necessario rapportare la percentuale di successo all’età della donna. Dal 2005 in poi, l’età media della donna è stata di 35 anni con il 20% quindi 2 donne su 10 oltre i 40 anni. I risultati oltre i 40 anni si dimezzano, non più il 10% per ciclo ma solo il 5% per ciclo, mentre intorno ai 30 anni i risultati sono tra il 15% e il 20% per ciclo. Se confrontiamo questi dati a quanto avviene normalmente in una coppia fertile, vediamo che i risultati non sono molto dissimili. Infatti la razza umana ha un indice di fecondità per ciclo molto basso, e solo del 22-23% in una coppia fertile con donna di 20-25 anni, e in una donna di 35 anni scende al 15%, quindi non molto lontana dal 10% che si ottiene con l’inseminazione in donne di pari età.

3. Durante l’evento tenutosi il 2 marzo presso la Mangiagalli e promosso dall’azienda farmaceutica Ferring, si è acceso un vivace dibattito sull’efficacia della IUI poiché i dati relativi al successo di questa pratica sono molto bassi. Perchè secondo Lei, da cosa dipendono gli alti numeri di insuccesso?

La maggior parte di insuccessi dipende essenzialmente da due fattori:

– il primo è dovuto a quanto detto prima, l’età; l’età della donna è estremamente importante, eseguire l’inseminazione in una donna di oltre 40, 42 anni significa andare incontro ad un alto numero di insuccessi;

– il secondo fattore fondamentale è una corretta indicazione: 3 sono infatti le indicazioni nelle quali l’inseminazione può avere il massimo dei risultati: la prima è l’infertilità maschile. Voglio sottolineare che inseminare meno di 3 milioni di spermatozoi mobili espone ad un quasi sicuro insuccesso; secondo, l’infertilità causa sconosciuta, vale a dire quando tutti gli esami sulla coppia sono normali e dopo un anno non si sia ancora ottenuta la gravidanza; terza indicazione, difficoltà ovulatoria della donna con conseguente difficoltà ad avere rapporti nella cosiddetta finestra fertile del ciclo.

4. Ma secondo lei, è sempre necessario per le coppie tentare la IUI o forse non sarebbe meglio passare direttamente a pratiche di secondo livello?

Io credo che nelle corrette indicazioni sia utile eseguire una inseminazione intrauterina, anche per seguire, credo, la gradualità di terapia, dalla più semplice alla più complicata come la fecondazione in vitro, gradualità voluta anche dalla legge 40/2004 sulla procreazione medica assistita.

5. Dopo quanti tentativi di IUI si può accedere alle tecniche di secondo livello?

Sempre la legge 40 permette l’esecuzione fino ad un massimo di 6 inseminazione intrauterine. Credo però sinceramente, che in maniera ragionevole non sia utile eseguirne più di 3, in quanto a differenza della fertilizzazione in vitro, i risultati diminuiscono sensibilmente dalla prima alla terza inseminazione e sono praticamente ridotti dopo la terza.

Una coppia che si scopre non fertile arriva a contattare i centri specializzati nella procreazione medicalmente assistita (PMA) in tempi più rapidi se ha una buona conoscenza delle cause di infertilità e se la loro domanda passa attraverso il settore pubblico. (1)
Questo è quanto dimostrerebbe uno studio italiano, guidato dal Dott. Massimo Costa, direttore del Centro Medicina della Riproduzione presso l’Ospedale Evangelico Internazionale di Genova. Lo studio è in collaborazione con l’Ospedale Policlinico di Milano e l’Ospedale Moscati di Avellino ed è finanziato dall’azienda farmaceutica Ferring, da sempre molto attiva nel campo della ricerca in questo settore.

Il LAVORO, pubblicato sulla rivista internazionale European Journal of Obstetrics & Gynecology and Reproductive Biology, ha ripercorso la storia e le tappe mediche di coppie che si sono affidate a undici centri nazionali di secondo livello per la cura dell’infertilità. Lo studio è stato condotto sotto la supervisione dell’Associazione Ostetrici e Ginecologi Ospedalieri Italiani (AOGOI), società scientifica italiana che rappresenta più di 5.000 ginecologi.(1)

Infertilità e PMA

Secondo l’O.M.S.(Organizzazione Mondiale della Sanità) l’infertilità in Italia colpisce il 15/20% delle coppie. Dopo 1-2 anni di tentativi nella ricerca naturale di un figlio, la coppia si rivolge al proprio medico o al ginecologo per un primo consulto, per poi essere indirizzata verso centri specializzati nella fecondazione assistita.

Questi centri PMA, pubblici o privati, si differenziano in primo, secondo o terzo livello a seconda di quanto siano sofisticate le tecniche di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) che vengono utilizzate.
Il fattore tempo influisce molto sulle probabilità di concepimento, soprattutto se è riferito all’età della donna che si sottopone ad una procedura di PMA.
In Italia si effettuano circa 48 mila cicli di Procreazione Medicalmente Assistita ogni anno, e di questi il 70% è effettuato su donne di 35 o più anni di età, mentre la frequenza all’interno della stessa fascia di età scende al 50% nel resto d’Europa.

Per questo risulta determinante il tempo trascorso tra la realizzazione da parte della coppia di avere un problema di infertilità e il momento in cui si sottopone ad una Procreazione Medicalmente Assistita. Ci sono dei fattori che influenzano la scelta della coppia di affidarsi ad un centro di secondo livello per la fertilità?

L’indagine clinica

Il Dott. Costa e colleghi hanno provato a dare una loro risposta ripercorrendo l’iter di 406 coppie dalla scoperta della possibile infertilità, alla prima consultazione del medico fino al ricovero presso 11 centri italiani di secondo livello per l’infertilità considerati nello studio che è durato 15 mesi.

Ciascuna coppia ha compilato un questionario con l’aiuto di un medico, per raccogliere informazioni generali (età, occupazione, educazione), la storia ginecologica e le sospette cause di infertilità (femminile, maschile, di coppia o sconosciuta).

Nello studio sono stati presi in considerazione anche la data di inizio della ricerca di una gravidanza e del primo incontro con il medico per sospetta infertilità, informazioni sul titolo professionale del medico consultato, la tipologia dei test diagnostici prescritti, la frequenza dei rapporti intimi e i possibili metodi adottati dalla coppia per aumentare la probabilità di concepimento, nonché i possibili ricorsi preesistenti ad uno dei trattamenti per l’infertilità.(1)

Il livello culturale e il tempo di richiesta d’aiuto

Le coppie hanno atteso una media di 13 mesi di rapporti non protetti prima di pensare ad un problema di infertilità e richiedere un consulto medico, oscillando tra un massimo di 30 mesi per le coppie con un basso profilo scolastico e 21 mesi per le coppie con un livello culturale elevato. Gli esami prescritti hanno coperto tutte le possibili cause di infertilità femminile.

Tuttavia, più del 50% dei partner maschili non è stato sottoposto ad un esame spermatico accurato. Questo suggerisce che quando un medico sospetta che l’infertilità di coppia abbia una base prevalentemente femminile, non tiene conto del possibile coesistenza di un fattore maschile.

Da qui, il contatto successivo in un centro di secondo livello si è verificato in media dopo 9,5 mesi. I tempi risultavano più rapidi per le coppie con un livello culturale elevato, o che avessero già subito un aborto indotto, e seguite da ginecologi impiegati in centri pubblici di primo livello per la fertilità.(1)

Sembra, quindi, che conoscere le cause di infertilità ed essere seguiti da una figura medica pubblica siano due fattori predittivi sul tempo che una coppia attende prima di affidarsi a un centro di secondo livello per la Procreazione Medicalmente Assistita. Questi due aspetti potrebbero essere i punti su cui agire per rendere più efficiente l’aspetto diagnostico e terapeutico.

“Dobbiamo sottolineare e diffondere le informazioni che un anno è sufficiente a definire il rischio di un problema di infertilità e per iniziare un iter diagnostico, per avvisare le coppie meno informate”, dichiara il Dottor Costa, il quale sottolinea l’importanza di una buona conoscenza dei problemi legati all’età della donna che dovrebbero spingere sia i medici che le coppie assistite verso una maggiore rapidità con cui vengono completati gli esami a scopo diagnostico.

“Bisogna chiarire che l’infertilità è un sintomo di molti e diversi disturbi maschili e femminili: questo è particolarmente importante per i pazienti che hanno un basso livello culturale, che possono avere un atteggiamento fatalista nei confronti del problema”, conclude l’autore dello studio.(1)

Referenza:
1. Costa M, et al. Timing, characteristics and determinants of infertility diagnostic work up before admission to eleven second-level assisted reproductive techniques (ART) centres in Italy. Eur J Obstet Gynecol (2012), Resolve a DOI 10.1016/j.ejogrb.2012.10.022

Si è tenuto in data 31 gennaio l’incontro al Corriere della Sera incentrato sulla Fecondazione Assistita.
Moderato dalla giornalista Daniela Natoli, il dibatto ha visto la partecipazione di Elisabetta Chelo del Centro Demetra di Firenze, il Professor Bini, Ospedale Niguarda di Milano, Eleonora Mazzoni, attrice ed autrice del libro “Le Difettose” e il Prof.Egidio Moja, psicologo, Università di Milano.

Al centro dell’incontro sono stati posti argomenti scomodi, quelli di cui generalmente i media non parlano, preferendo dare risalto alle gravidanze vip, che fanno notizia.
Troppo spesso si tende a lasciar passare sotto silenzio la vera realtà della Procreazione Medicalmente Assistita , non dando spazio sulle pagine dei giornali al peso psicologico che grava sulla donna e sulla coppia, alle difficoltà e alle delusioni a cui si va incontro.

Grazie ai progressi della scienza nel campo della contraccezione e nel settore medico in generale, nell’immaginario collettivo si è creata la convinzione che se la scienza è in grado di controllare le nascite, è anche in grado di controllare la fecondazione.
I mass media parlano solo dei successi della fecondazione assistita e si concentrano sulla straordinarietà degli eventi, dando grande risalto alla donna di 50 anni, attrice o cantante famosa, che rimane incinta e partorisce.
In questo modo si trasmette un messaggio molto fuorviante, si fa credere al grande pubblico che la scienza possa superare qualsiasi barriera, posta dall’età o dalle condizioni fisiche della donna e si accentua il senso di malessere e di sconfitta di coloro che non riescono a procreare né naturalmente né grazie alla PMA.

Spesso si trascura il fatto che circa il 20% delle coppie riscontrano difficoltà riproduttive. Tra quelle che decidono di rivolgersi a un centro per la fecondazione assistita, soltanto il 25% riesce a concepire con la PMA.

Durante l’incontro è stato dato molto spazio ad un’altra tematica molto importante e molto spesso trascurata: la comunicazione medico/paziente.
Nel tipo più tradizionale di comunicazione il medico si pone come una figura di guida, che tende a decidere al posto dei pazienti. Tuttavia questo ruolo di medico-guida viene messo in discussione dai modelli più recenti di comunicazione che prevedono un percorso che il medico e la coppia percorrono insieme.
Proprio questa complementarità tra medico e paziente, dovrebbe portare insieme queste figure ad abbandonare il percorso della PMA dopo numerosi insuccessi o un quadro clinico non favorevole.

Un canale di comunicazione aperto e basato sulla fiducia è importantissimo anche nel caso di debba trasmette una notizia non positiva. E’ importantissimo che il medico, oltre a conoscere la storia e il vissuto della coppia, sia in possesso degli strumenti comunicativi corretti per comunicare con i propri pazienti. E’ proprio questo il tema di uno studio, sovvenzionato dalla casa farmaceutica Ferring e condotto dal Professor Moja in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano.

Dopo il simposio “Reproductive Health – Patient Summit” di Osaka, organizzato dall’azienda farmaceutica Ferring e di cui abbiamo discusso in questo articolo, si torna a parlare della tutela del paziente durante il percorso della Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) e delle iniziative messe in atto per rendere i centri specializzati in fertilità più consapevoli dell’impatto emotivo che tale percorso ha sulle coppie.

Lo studio, che durerà tre anni ed è realizzato in collaborazione con l’azienda farmaceutica Ferring e le associazioni Cittadinanzattiva ed Hera O.n.l.u.s., coinvolge ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma e cinque centri dislocati in tutta Italia.
La ricerca ha come obiettivi quello di ottenere conoscenze utili alla prevenzione del drop-out tra le coppie che si rivolgono ai Centri di Procreazione Medicalmente Assistita (ovvero coppie che lasciano il centro, e plausibilmente il progetto di concepire con PMA) e quello pianificare un modello di comunicazione tra il centro e le coppie in modo da instaurare un rapporto basato sulla fiducia e sull’assistenza, anche psicologica.
A questo proposito chiediamo un parere alla Dottoressa Laura Volpini, coinvolta in prima persona nel progetto.

Dottoressa Volpini, La ringrazio per aver accettato di essere intervistata. Come sappiamo il percorso della fecondazione assistita è spesso, per una coppia, lungo e molto impegnativo dal punto di vista emotivo e psicologico. In base alle sue ricerche ci può dire quante sono le coppie che abbandonano questo percorso e per quali motivi?

Statisticamente le coppie che interrompono il percorso di Procreazione Medicalmente Assistita sono circa il 40%.
Una parte di queste abbandona dietro consiglio medico. Un’altra decide di interrompere il percorso di PMA dopo numerosi tentativi, che hanno dato esito negativo: la coppia arriva alla consapevolezza che, purtroppo, bisogna trovare altre strade, come quella della fecondazione eterologa (la fecondazione eterologa è la procreazione assistita con donazione di ovociti o spermatozoi, attualmente vietata in Italia dalla Legge 40 NdRedazione).
Una delle cause del drop out è sicuramente la difficoltà a livello emotivo e psicologico della coppia ad affrontare lo stress di ripetuti risultati negativi. E’ molto raro che le coppie abbandonino già dal primo tentativo non andato a buon fine: tendenzialmente è dal terzo tentativo che si registra la percentuale più alta di abbandoni.
La PMA impatta in maniera significativa sia a livello individuale – soprattutto sulla donna, che deve seguire scrupolosamente le indicazioni del medico – sia a livello della coppia, che può uscire da questo percorso più o meno consolidata.

Lo studio che state conducendo analizza tutti gli step che vengono fatti da una coppia che intraprende il progetto di concepire con PMA e si pone come obiettivo quello di analizzare il rapporto tra la coppia e tutti i soggetti coinvolti, dalla segretaria, che prende il primo appuntamento al ginecologo, al biologo.

Sulla base delle testimonianze raccolte tra il personale delle cliniche, quali sono le principali criticità nel rapporto con i pazienti?

Una delle criticità più rilevanti è sicuramente il reperimento delle informazioni: le coppie hanno la necessità di raccogliere più informazioni possibili, ad esempio inerenti alle linee guida che devono seguire, le conseguenze dei trattamenti e la probabilità di successo degli stessi.
Le informazioni vengono chieste, in particolare, al personale ausiliario, che spesso è interpellato per avere delucidazioni su quanto detto dal medico durante la visita.
Altra fonte di informazione molto importante è lo psicologo, che ha avuto una formazione professionale specifica nell’ambito della fecondazione assistita. Lo psicologo può chiarire le informazioni e, allo stesso tempo, tranquillizzare le coppie, che, magari, vivono nell’ansia perché non hanno compreso appieno quello che è stato detto durante la visita o perché si trovano davanti a complicazioni che non avevano previsto.

Durante il percorso di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) quanto può essere importante un sostegno psicologico professionale per una coppia?

La figura dello psicologo è prevista dalla Legge 40; è molto importante che lo psicologo abbia una formazione specifica e che sia parte integrante del team della fecondazione assistita.
La consulenza di uno psicologo, in questi casi, si muove principalmente su due livelli: prima di tutto quello di umanizzare il processo della PMA, tenendo conto sia dell’aspetto psicologico sia del percorso che ha portato una coppia ha intraprendere il percorso di Procreazione Medicalmente Assistita. L’assistenza dello psicologo è molto preziosa per cementare l’unità e il sostegno reciproco all’interno della coppia e per evitare che degli attriti mettano in pericolo l’equilibrio della stessa durante il percorso della PMA.
La consulenza di uno psicologo, in secondo luogo, è efficace se dovessero insorgere delle criticità. Lo centri pmapsicologo può, ad esempio, aiutare la coppia a considerare realisticamente i problemi non previsti e a prendere delle decisioni, magari difficili, in maniera consapevole.
La presenza dello psicologo è fondamentale, infine, quando si devono comunicare delle notizie negative. E’ importante che la coppia abbia costruito un rapporto di fiducia con lo psicologo durante tutto il processo di fecondazione assistita, in modo da poter contare su un valido aiuto professionale in caso di notizie non buone.

Parallelamente al sostegno di uno psicologo, specializzato in PMA, quanto può incidere la preparazione del personale medico nella gestione del rapporto con il paziente?

La sensibilizzazione alla comunicazione efficace da parte delle figure professionali è sicuramente uno dei capi saldi su cui è necessario lavorare. La sensibilità personale, in molti casi, non è sufficiente per garantire la comunicazione di una notizia, magari negativa, in maniera adeguata. Nei cinque centri, che stanno partecipando alla nostra ricerca, sono emerse due esigenze: quella di avere dei percorsi formativi rivolti al personale della clinica per adottare delle strategie comunicative efficaci e quella di un processo di supervisione, che permette di analizzare i vari casi di successo o insuccesso comunicativo tra la clinica e le coppie.
La preparazione del personale della clinica, dal punto di vista psicologico e comunicativo, è importante nello scenario che si sta configurando, ovvero di una presenza non stabile dello psicologo a tutti gli INCONTRI.

La ricerca che sta conducendo insieme al team di professionisti dell’Università La Sapienza non è ancora conclusa, ma quale consiglio si sentirebbe di dare alle coppie che ha intrapreso un percorso di fecondazione assistita o che hanno intenzione di rivolgersi a un centro per la fertilità?

Dalla mia esperienza ho potuto constatare che molte delle coppie, che si rivolgono ai centri PMA, sono già in possesso di molte informazioni. Spesso però queste informazioni sono state raccolte su internet, su forum e community di utenti che hanno condiviso la loro esperienza e che sovente danno dei consigli anche di carattere medico.
Consiglio alle coppie che hanno intrapreso il percorso della PMA o che hanno intenzione di rivolgersi a una clinica di fidarsi solo delle informazioni reperite presso fonti accreditate.
Per facilitare il reperimento delle informazioni, è importante migliorare la comunicazione tra le cliniche di PMA e i ginecologi di prima consultazione, in modo che sappiano indirizzare le coppie prima ancora che queste si rivolgano a un centro specializzato.
Mi sento, infine, di dare un consiglio a tutte le donne in età fertile: la prevenzione è fondamentale per evitare l’infertilità. Purtroppo in Italia mancano iniziative per promuovere la prevenzione dell’infertilità nella donna, ma con controlli adeguati, fatti nel corso degli anni e non solo quando la donna decide di avere un figlio, si possono prevenire molti problemi, anche gravi.

Cittadinanzattiva è un’associazione in prima linea per la tutela dei cittadini e dei consumatori, sia in Italia che in Europa. L’associazione vede nel proprio rappresentante, l’avvocato Maria Paola Costantini, una delle figure di spicco nel campo della tutela delle coppie che ricorrono alla fecondazione assistita.

Appena tornata dall’importante simposio “Reproductive Health – Patient Summit”, organizzato dall’azienda farmaceutica Ferring, l’avvocato Costantini ci parlerà del contesto internazionale sul tema Procreazione Medicalmente Assistita, soffermandosi, in particolare, sui rischi di cui spesso le coppie che intraprendono un percorso di fecondazione assistita non sono consapevoli e sulla situazione delle coppie “drop out”.

Avvocato Costantini, Lei è un legale Cittadinanzattiva, associazione per la tutela dei consumatori, ed è impegnata in particolare sul tema della fecondazione. Ci può parlare più approfonditamente dell’associazione? Dei suoi obiettivi e delle tematiche di cui si occupa? E da quanto tempo ne fa parte e come si è interessata per la prima volta al mondo delle associazioni per i consumatori?

Cittadinanzattiva è un’associazione nata nel 1978, con il nome di Movimento Federativo Democratico. Nel 1980 fu fondato il Tribunale dei Diritti del Malato, che è attualmente una delle diverse reti di cui si compone Cittadinanzattiva. Cittadinanzattiva è sempre stata, in termini forse più anglosassoni, un’organizzazione civica fatta da cittadini che vogliono dare un contributo per lo sviluppo della società nei suoi diversi ambiti. I cittadini, singoli e associati possono operare in concreto, diventando interlocutori con le istituzioni nazionali e locali e con chi opera nell’ ambito sanitario. La mia esperienza è di lunga data, essendo tra i fondatori e avendo iniziato ad occuparmi dell’area della salute fin dal 1980, quando si è iniziato a raccogliere le segnalazioni da parte dei cittadini davanti agli ospedali e a scrivere le prime Carte dei Diritti del Malato, che poi hanno avuto una diffusione in tutta Italia.

Queste esperienze mi hanno permesso di entrare direttamente in contatto con il mondo sanitario in modo concreto, comprendendo sia i disagi dei pazienti sia le difficoltà degli operatori. Normalmente ciò non fa parte della formazione di un giurista e di un avvocato che di solito è rilegato nel proprio campo e non conosce direttamente le realtà di cui si occupa.

Ricollegandoci al suo intervento al meeting di Osaka, a cui hanno partecipato esperti ed esponenti di associazioni provenienti da tutto il mondo, in che modo la vostra associazione può creare un network con altre associazioni per la tutela del paziente a livello internazionale, confrontandosi con altre realtà sanitarie molto diverse da quella italiana?

Penso che uno degli aspetti positivi del meeting di Osaka sia stato lo scambio di informazioni e il confronto con gli esperti. Ascoltando le varie relazioni, ci si accorge che alcune questioni, pur con delle differenze, ritornano spesso. Ad esempio: la questione della sostenibilità economica per la Procreazione Medica Assistita. In tutto il mondo le associazioni si stanno battendo perché la PMA venga inserita tra i livelli essenziali di assistenza. Con il rimborso delle spese sostenute per i trattamenti, si arriverebbe ad avere un accesso equo a tutte le prestazioni.
Un’altra questione concerne la corretta informazione alle metodiche e mi sembra che tutte le associazioni stanno operando per favorire e aumentare il grado di informazione e di consapevolezza delle coppie.
Nel contesto internazionale, quindi, è molto importante la costruzione di un network per lo scambio di informazioni. I temi possono essere vari: l’appropriatezza e la sicurezza delle metodiche, la qualità dei farmaci e la loro efficacia, l’accesso alle cure e i loro costi. E poi è fondamentale rafforzare un network a livello internazionale per intraprendere e portare avanti le stesse battaglie legali. In Italia abbiamo avuto l’esempio della Legge 40 del 2004 che è stata modificata attraverso ricorsi e azioni giudiziarie, in Argentina è stato utilizzato dalle associazioni lo stesso strumento, insieme all’intervento in sede parlamentare.

Le associazioni a difesa del paziente possono contare sulla collaborazione di professionisti che operano in vari campi: legale, mediatico, scientifico… Ma quanto è mantenere un dialogo aperto con gli altri stakeholder nel campo della fertilità, come le aziende farmaceutiche, per le associazioni sia nel panorama italiano che nel panorama internazionale?

Secondo me è indispensabile. Mantenere un dialogo aperto con i vari stakeholder, come le associazioni per le coppie infertili, l’area media e biologica, è fondamentale per avere le corrette informazioni, per diffonderle in maniera corretta e integrata, in quanto le coppie in questo momento hanno una grande difficoltà a reperire le giuste informazioni.
Solo per fare un esempio: le coppie si presentano in vari centri PMA con ricerche e documentazioni che hanno trovato in forum e community online, senza però avere gli strumenti adatti per capire se un centro è qualitativamente valido e se ha una solida esperienza nel campo della fecondazione. Conosco, ad esempio, una coppia che è stata seguita prima da un centro italiano e poi da un centro spagnolo, dove ha trovato, oltre i problemi di comunicazione tra medico e paziente, che purtroppo non sono infrequenti, informazioni non particolarmente esaustive e ora ha l’impressione di essere stata imbrogliata. Mettere in circolo le informazioni corrette, quindi, è di fondamentale importanza.

Con le aziende farmaceutiche, c’è tutto il discorso della sicurezza dei farmaci. In Italia negli ultimi anni nella fecondazione assistita si è riscontrato un problema quasi di stigma, che non era legato solo ai problemi etici. Il mondo politico, infatti, considera sia le ditte farmaceutiche sia i medici come soggetti che non hanno la consapevolezza di impattare sulla salute delle persone. Per questo motivo si è verificato una sorta di discredito su tutto il mondo della fecondazione assistita.
Anche il rapporto con le aziende farmaceutiche deve portare a una corretta informazione, al far capire che cosa c’è dietro la creazione di un farmaco, al far comprendere quali sono gli effetti veri e gli effetti presunti e soprattutto quali sono gli effetti che sono stati falsati.

Parliamo ora dei pazienti o che solitamente si rivolgono a Cittadinanzattiva. Dalla sua esperienza che cosa consiglierebbe a una coppia che sta per intraprendere questo percorso? Innanzitutto per scegliere una clinica di cui fidarsi, che cosa devono verificare? Ad esempio il prestigio del ginecologo, le attrezzature all’avanguardia, che solitamente vengono messe in secondo piano nella scelta da parte di una coppia inesperta? E come consiglia di informarsi sui rischi per aumentare la consapevolezza?

Cittadinanzattiva offre un servizio di consulenza, attraverso la raccolta di tutte le segnalazioni, che vengono raccolte nel PIT SALUTE, ovvero Progetto Integrato di Tutela per la Salute, e attraverso un centralino a cui le coppie possono telefonare.
I temi più ricorrenti sono quello dell’individuazione dei centri e quello relativo alle procedure che possono essere effettuate in Italia.
Sull’individuazione dei centri PMA ci sono delle difficoltà oggettive perché in Italia l’accreditamento dei professionisti non è mai partito, nel senso che è difficile accedere alle informazioni relative al curriculum del singolo professionista. In alcuni casi si trovano sui siti dei diversi centri, in altri casi no, ma non c’è stato nessun intervento diretto da parte delle società scientifiche o da parte del Ministero della Salute e in particolare del registro che segue i centri di fecondazione assistita per regolamentare l’accessibilità agli accrediti di un professionista.

Penso che in questi anni ci sia stata, inoltre, poca attenzione su quanto concerne la formazione in ordine alla qualità singolo professionista che è fatta soprattutto attraverso convegni ed è diretta prevalentemente ai medici o ai biologi. Sono poche le iniziative che hanno come oggetto le procedure, le fasi e in generale l’attività di un centro che è complessa e articolata e prevede una multidisciplinarietà, una qualità dei presidi e un corretto uso dei macchinari.
L’attenzione per la qualità e la sicurezza non è messo al centro del dibattito pubblico e dei mass media che normalmente affrontano i temi della fecondazione assistita quando succede qualche caso di cronaca molto eclatante o quando c’è l’esito di una azione giudiziaria che modifica la normativa.

Come dicevo prima, il tema dell’accesso alle informazioni è rilevante anche perché le coppie si rivolgono ai forum tematici e con una sorta di passaparola. Vorrei sottolineare un altro problema che è quello di aumentare il grado di umanizzazione. Per le coppie è molto importante avere un buon rapporto con gli operatori. Spesso il criterio per scegliere la clinica diventa “quella coppia è stata trattata bene” e quindi l’umanizzazione diviene il fattore discriminante per scegliere un centro piuttosto di un altro. E’ un dato su cui lavorare perché può ingenerare fraintendimenti e produrre rischi: la gentilezza non stabilisce la qualità medico-scientifica di un centro.

Solitamente, però, le coppie si rivolgono ai forum tematici e c’è una sorta di passaparola. Questo in realtà può generare dei rischi fortissimi, perché la gentilezza non stabilisce la qualità medico-scientifica di un centro.

Un altro problema legato al mondo del web è lo scambio dei farmaci. Nei forum e in alcuni siti si possono acquistare o scambiare farmaci senza prescrizione, senza poter controllare come sono stati conservati, senza aver cognizione delle dosi per la propria condizione, basandosi quindi non sulla diagnosi di un medico ma sul consiglio di altre coppie.

Ho visto molte community online di donne e future mamme che si stanno sottoponendo a uno dei trattamenti per la Procreazione Medicalmente Assistita. Secondo lei, quindi, è più importante forse l’aspetto umano, il conforto che le donne possono trovare in altre donne che stanno facendo il loro stesso percorso piuttosto che il consiglio “scientifico” che viene dato da una persona che non opera nel settore sanitario.

Esattamente. Molte volte per aiutarsi a vicenda si scambiano dei consigli che solo un professionista potrebbe dare. Se dovessi fare una raccomandazione sarebbe quella di evitare di fidarsi di questi consigli e quindi in ordine alle dosi dei farmaci, ai trattamenti o addirittura alle diagnosi dati da altre donne che si stanno sottoponendo al trattamento, ma che non sono assolutamente medici. Questo “fidarsi” e basarsi sulle esperienze delle altre coppie spesso comporta un mancato consulto del medico, con rischi alla salute.

Sempre in base alla sua esperienza, questa disinformazione o informazione non medicalmente qualificata su che cosa si riflette? Può farci un esempio pratico?

Uno dei primi elementi che si sta individuando è che c’è ancora molta paura dell’ impatto dei farmaci, perché il passaparola ha alimentato idee e miti sbagliati come un aumento di peso, uno sconvolgimento a livello ormonale e molti effetti secondari di diverso genere. In realtà poi si verifica lo stesso un accesso al farmaco, ma il medico non riesce a convincere la coppia che ci sono stati negli ultimi anni dei miglioramenti notevoli sia nelle metodiche sia nell’eliminare gli effetti negativi dei farmaci.

Dal 2011 Cittadinanzattiva e Hera Onlus, con l’Università La Sapienza di Roma, sono impegnate in uno studio che nelle cliniche per la fertilità analizza le cause del “drop out” delle coppie, ovvero coppie che abbandonano il centro, e forse addirittura il progetto di concepire con PMA, dopo uno o più tentativi falliti. Anche sulla base dei risultati preliminari di questo studio, quali consigli si sente di dare ai centri e alle coppie?

Io darei come consiglio ai centri quello di capire bene il ruolo dello psicologo previsto dalla normativa come aiuto e sostegno e di migliorare la loro capacità di comunicazione con la coppia. A questo proposito abbiamo tenuto un corso, in collaborazione con l’associazione Hera, presso un centro per la fecondazione assistita di Catania durante il quale si è affrontato il problema di comunicazione medico – paziente. Oggetto del corso, sono state le regole della comunicazione, la costruzione di una ceck list per il primo e gli altri colloqui. Sono importanti, ad esempio, il tono di voce da usare, il modo in cui esprimere determinati concetti. E questo è servito moltissimo perché l’atteggiamento dei professionisti coinvolti è cambiato.

Alle coppie dare alcuni consigli: non sfuggire dal sostegno di tipo psicologico e di counselling; di chiedere informazioni precise e adeguate dai centri e dai medici; di avere fiducia, sempre con l’accortezza di non scegliere i professionisti per le pubblicità; di accettare di fare un percorso completo con questi professionisti, senza interpellare, come spesso succede, diversi centri e diversi specialistici nello stesso tempo. Il rischio è di ricevere informazioni contrastanti, indicazioni terapeutiche contraddittorie e alla fine di scegliere la clinica in base alla simpatia del medico o in base a parametri non oggettivi.

Quindi consiglio alle coppie inizialmente di raccogliere informazioni da strutture abilitate e forse in questo campo dovrebbe esserci un ruolo maggiore da parte del Ministero della Salute e delle società scientifiche.

Infine vorrei consigliare alle coppie di insistere perché i medici dedichino loro tutto il tempo necessario, sia al primo colloquio informativo, sia in quelli successivi. Le coppie molte volte si sentono come un soggetto passivo che passano da un medico all’altro, come se fossero coinvolti in una specie di catena di montaggio.
Ecco questo non deve succedere: affidatevi, ma pretendete che ci sia una buona e corretta informazione e che la struttura vi prenda in carico totalmente.

Imparare a comunicare con i pazienti può determinare il successo di una terapia. A maggior ragione nel settore della Procreazione Medicalmente Assistita, dove i medici specialisti sono tenuti ad entrare in relazione con la coppia. Per imparare a gestire le situazioni critiche e ad adottare strategie relazionali efficaci, Ferring ha promosso recentemente un corso di comunicazione medico paziente, tenutosi a Roma e Milano. Vi hanno partecipato ginecologi, infettivologi ed esperti della PMA.

“Un figlio. Perché noi no?”. E’ quello che si chiedono le coppie italiane che si sottopongono a tecniche di fecondazione assistita. Ed è anche il titolo di un corso di comunicazione promosso da Ferring e rivolto a medici specialisti nel campo della procreazione medicalmente assistita. In Italia, una coppia su 7 è infertile e se le tecniche oggi disponibili rendono possibile la nascita di circa 10mila bambini all’anno, solo il 25-30% di coloro che sono in terapia diventano genitori.
Le coppie tendono a visitare diversi centri prima di scegliere il medico a cui affidarsi e i casi di abbandono della terapia, in gergo tecnico drop-out, si attestano intorno al 40%. Da qui, l’idea di un corso di comunicazione incentrato sulla relazione medico-paziente, che aiutasse i medici ad imparare a gestire la coppia e a instaurare una relazione con essa, in modo da ridurre gli insuccessi terapeutici.
“Abbiamo pensato che fosse un nostro dovere – racconta Paolo Zambonardi, amministratore delegato di Ferring Italia – come azienda impegnata sul piano etico, di offrire un servizio agli specialisti che avesse poi un riverbero sulla salute dei pazienti”. Il corso si proponeva di fornire ai medici alcuni strumenti per imparare a gestire le situazioni critiche, sviluppare una consapevolezza circa il proprio stile relazionale ed adottare strategie efficaci di interazione.
“Il problema principale che dobbiamo affrontare è che la gente arriva da noi con una massa di informazioni sbagliate – spiega Mauro Costa, responsabile scientifico del prossimo congresso Nazionale della Federazione Italiana delle Società Scientifiche della Riproduzione (FISSR) e direttore del Centro Sterilità dell’Ospedale Galliera di Genova che ha partecipato al corso – e, quindi, con delle aspettative sbagliate”. Le leggende metropolitane sul tema infertilità abbondano e dopo aver passato metà della prima visita a ‘decostruire’ ciò che la coppia è andata costruendo nel tempo, mettendo insieme informazioni raccolte dalle fonti più diverse, per il medico è necessario costruire una relazione con i pazienti. Un rapporto di fiducia che tenga conto del vissuto della coppia e delle sue aspettative.

“Un altro problema che riscontriamo – prosegue il dottor Costa – è che talvolta i pazienti ragionano in termini prettamente utilitaristici. Portano i propri esami anche in 3-4 cliniche diverse e si affidano al medico che sembra soddisfare più facilmente le proprie richieste, mentre bisogna investire del tempo e della voglia nella relazione”. E per instaurare una relazione con la coppia, una relazione che metta al centro della visita il paziente e non la malattia, è necessario lasciar parlare l’individuo e condividere il suo vissuto. Fatto anche, e talvolta soprattutto, di non detti e paure non espresse. E’ proprio questa la maggiore difficoltà che incontrano i medici, che sono stati impegnati durante il corso in attività di role-playing con coppie di attori che simulavano situazioni cliniche verosimili. Un’esperienza utile per mettere in luce il proprio stile relazionale, così come l’attività di scrivere una storia clinica e la descrizione di un successo professionale da condividere con gli altri specialisti.
La Professoressa Elena Vegni, docente di Psicologia Clinica presso la Facoltà di Medicina dell’Università degli Studi di Milano e relatrice del corso, sottolinea l’importanza della comunicazione come elemento imprescindibile della professione del medico, perché saper comunicare con i pazienti può fare la differenza in termini di successo della terapia.

“Da una parte c’è il quadro clinico del paziente, su cui lo specialista interviene con le sue competenze di carattere biologico – spiega la Professoressa Vegni – ma dall’altra, il quadro clinico si innesta su una situazione di coppia unica, che offre una lettura del problema altrettanto unica. E’ proprio rispetto a questa lettura del problema che il medico deve interrogarsi, per imparare a ‘leggere la coppia’ che si trova di fronte a lui”. In altre parole, il medico deve imparare a cogliere il vissuto del paziente, la sua storia personale e la sua risonanza emotiva connessa al percorso terapeutico che sta intraprendendo, per poter adottare le strategie comunicative più efficaci.
Al dottor Costa piace ricordare un caso di successo che ben esemplifica questa necessità: una coppia rivoltasi a lui per problemi di infertilità ma che, in realtà, aveva problemi nell’avere rapporti sessuali. Ascoltando la coppia e facendo emergere difficoltà latenti, si è riusciti ad entrare in relazione con i due pazienti e a smascherare il problema di fondo, senza dover ricorrere a una fecondazione assistita.