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Secondo un recente rapporto OMS una persona adulta su sei nel mondo soffre di infertilità nel corso della vita. L’enorme percentuale di persone colpite mostra la necessità di ampliare l’accesso alle cure per la fertilità.

Una persona su sei nel mondo, circa il 17,5% della popolazione adulta, soffre di infertilità nel corso della vita: è quanto emerge dal rapporto “Infertility prevalence estimates”, pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

Il report

L’obiettivo del report è di fornire delle stime sulla prevalenza regionale e globale dell’infertilità attraverso l’analisi di tutti gli studi di rilievo prodotti tra il 1990 e il 2021.

“Questo rapporto è il primo del suo genere in un decennio e rivela un’importante verità: l’infertilità non discrimina.” Questo il commento del direttore generale dell’OMS Tedros Ghebreyesus, che aggiunge: “Per milioni di persone in tutto il mondo “il percorso verso la genitorialità può essere difficile, se non impossibile” e questo “indipendentemente da dove vivono e dalle risorse di cui dispongono. L’enorme percentuale di persone colpite – aggiunge – mostra la necessità di ampliare l’accesso alle cure per la fertilità e garantire che questo problema non sia più messo da parte nella ricerca e nella politica sanitaria”.

Infertilità e accesso alle cure

L’infertilità, definita dall’OMS come la mancata gravidanza dopo 12 mesi di rapporti sessuali regolari non protetti, “può causare un disagio significativo, stigma e difficoltà finanziarie, influenzando il benessere mentale e psicosociale delle persone“ – si precisa nel rapporto.

Dai dati emerge che circa il 17,5% della popolazione adulta mondiale soffre di infertilità, con una variazione limitata nella prevalenza tra le Regioni, stimata al 17,8% nei Paesi ad alto reddito e al 16,5% nei Paesi a basso e medio reddito. Il rapporto evidenzia inoltre una mancanza di dati in molti Paesi ed esorta una maggiore disponibilità di cifre nazionali.

Nonostante l’entità del problema, le soluzioni per la prevenzione, la diagnosi e il trattamento dell’infertilità, comprese le tecnologie di riproduzione assistita come la fecondazione in vitro, rimangono sottofinanziate e inaccessibili per molte persone.

“Migliori politiche e finanziamenti pubblici possono migliorare significativamente l’accesso alle cure” – afferma l’OMS.

 

Fonti:

ANSAOms: una persona su 6 nel mondo soffre di infertilità.

WHO – World Health Organization, Infertility Prevalence Estimates, 1990-2021. Disponibille al link: https://www.who.int/publications/i/item/978920068315 

 

L’infertilità, definita come l’assenza di concepimento spontaneo dopo 1 anno di rapporti non protetti, colpisce il 15-20% delle coppie e fattori maschili sono presenti in circa la metà di questi casi. Quando non si riesce a trovare la causa delle difficoltà di concepimento si parla di infertilità maschile idiopatica.

Abbiamo chiesto al Dr. Emanuele Ferrante, Endocrinologo, di spiegare cosa è l’infertilità idiopatica maschile e cosa si può fare.

Lo studio del maschio infertile

Lo studio del maschio infertile prevede l’esecuzione di numerosi esami (vedi anche gli Articoli: “Infertilità di coppia: gli esami per l’uomo”; “Infertilità maschile: possibili cause e ruolo della prevenzione”; “Infertilità maschile: le terapie”), che vengono prescritti allo scopo di riconoscere e potenzialmente risolvere le cause che conducono ad una ridotta qualità e/o quantità del liquido seminale.
Secondo il manuale della WHO (World Health Organization) del 2021, i limiti inferiori di riferimento per i parametri dell’esame del liquido seminale sono i seguenti:

  • Volume: 1.4 ml
  • Concentrazione/ml: 16×106
  • Numero/eiaculato: 39×106
  • Motilità progressiva: 30%
  • Motilità totale: 42%
  • Forme tipiche: 4%
  • Test di vitalità: 54%
L‘infertilità maschile idiopatica

Anche dopo esecuzione di tutti gli esami necessari, in una significativa quota di maschi non si riesce a trovare la causa dell’infertilità: in questi casi si parla di infertilità maschile idiopatica. A livello puramente ormonale, questo si traduce nella presenza agli esami ematici di normali livelli di testosterone e di gonadotropine (LH e FSH), gli ormoni glicoproteici prodotti dalla ghiandola ipofisi e che regolano il funzionamento del testicolo. In particolare, nel caso dell’FSH, il valore è considerato normale se inferiore a 8 IU/L.

Le possibili strategie terapeutiche

Negli ultimi anni, sulle possibili strategie terapeutiche di questa condizione è stato posto molta attenzione.

È ormai chiaro che lo stile di vita gioca un ruolo fondamentale nella salute maschile, sia generale che sessuale. Bisogna quindi correggere alcune abitudini (ridurre il consumo di alcol, ridurre l’indice di massa corporea in caso di sovrappeso/obesità, aumentare l’attività fisica e cessare il fumo) che possono ridurre il potenziale di fertilità del maschio.

Le più recenti linee guida suggeriscono inoltre, in maschi che presentano una oligozoospermia (ridotto numero di spermatozoi) e/o una astenozoospermia (ridotta motilità degli spermatozoi) idiopatica, l’utilizzo di una terapia con FSH. Molti studi hanno mostrato che questa terapia, utilizzata solitamente alla dose di 150U da somministrare sottocute 3 volte alla settimana per 3-4 mesi, è in grado di migliorare in modo significativo il numero e la motilità degli spermatozoi, determinando così – cosa più importante – un aumento sia del tasso di gravidanza spontanea che del tasso di gravidanza ottenuto mediante tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA). Tuttavia, servono dati più precisi per determinare quale siano il dosaggio e la durata di terapia più efficaci nel migliorare il potenziale fertile.

Molta più incertezza esiste in merito all’utilizzo degli integratori a base di antiossidanti, che possono essere presi in considerazione in caso di pazienti con infertilità idiopatica ed elevato danno da stress ossidativo (che può essere stimato mediante il test di frammentazione del DNA spermatico). Questa incertezza nasce dalla diversa composizione dei molti integratori presenti in commercio e dall’alto grado di eterogeneità dei dati pubblicati in letteratura.

Il counseling è fondamentale

In ogni caso, è fondamentale che vi sia una collaborazione attiva tra tutte le figure professionali coinvolte (ginecologo, endocrinologo, uro-andrologo…) al fine di ottimizzare le tempistiche dei diversi interventi terapeutici e delle eventuali tecniche di PMA, dato che nelle problematiche relative alla fertilità di coppia il fattore tempo riveste un ruolo cruciale.

 

Bibliografia di riferimento

Ferlin A, Calogero AE, Krausz C, Lombardo F, Paoli D, Rago R, Scarica C, Simoni M, Foresta C, Rochira V, Sbardella E, Francavilla S, Corona G. Management of male factor infertility: position statement from the Italian Society of Andrology and Sexual Medicine (SIAMS) : Endorsing Organization: Italian Society of Embryology, Reproduction, and Research (SIERR). J Endocrinol Invest. 2022 May;45(5):1085-1113. doi: 10.1007/s40618-022-01741-6. Epub 2022 Jan 24. PMID: 35075609.

Santi D, Crépieux P, Reiter E, Spaggiari G, Brigante G, Casarini L, Rochira V, Simoni M. Follicle-stimulating Hormone (FSH) Action on Spermatogenesis: A Focus on Physiological and Therapeutic Roles. J Clin Med. 2020 Apr 3;9(4):1014. doi: 10.3390/jcm9041014. PMID: 32260182; PMCID: PMC7230878.

Simoni M, Brigante G, Rochira V, Santi D, Casarini L. Prospects for FSH Treatment of Male Infertility. J Clin Endocrinol Metab. 2020 Jul 1;105(7):dgaa243. doi: 10.1210/clinem/dgaa243. PMID: 32374828.

WHO Laboratory Manual for the Examination and Processing of Human Semen, Sixth ed. 2021

La diagnosi di ipogonadismo maschile è ancora oggi un momento molto delicato, ma assolutamente fondamentale per le implicazioni terapeutiche, di follow-up e di carico emotivo sul paziente. Cerchiamo quindi di fare chiarezza su quelle che sono le attuali indicazioni che sono fornite dalle linee guida al fine di arrivare ad una diagnosi corretta di questa patologia.

Ne parliamo con il Dr. Emanuele Ferrante, Endocrinologo.

L’ipogonadismo maschile

L’ipogonadismo maschile è una sindrome clinica e biochimica caratterizzata da bassi livelli di testosterone (l’ormone sessuale maschile), che può influire negativamente su molte funzioni dell’organismo e sulla qualità della vita.

Quando si approccia alla diagnosi di ipogonadismo maschile, bisognerà pertanto tenere in considerazione sia gli aspetti clinici che quelli biochimici, che devono essere sempre entrambi valutati.

I principali segni e sintomi

Dal punto di vista clinico, i principali segni e sintomi legati all’ipogonadismo sono i seguenti:

  • Disordini della sfera sessuale:
    • Calo del desiderio sessuale
    • Disfunzione erettile
    • Riduzione delle erezioni spontanee mattutine
  • Disordini fisici e psicologici:
    • Astenia (stanchezza)
    • Facile affaticabilità muscolare
    • Ridotta capacità di eseguire attività fisica
    • Deflessione del tono dell’umore

Tuttavia, la presenza di sintomi che possono ricondurre ad un sospetto di ipogonadismo non è sufficiente a confermare la diagnosi e a indicare la necessità di un trattamento sostitutivo.

È invece necessario confermare la contestuale presenza di un’alterazioni biochimica.

La diagnosi biochimica

La diagnosi biochimica si fonda sul dosaggio dei livelli di testosterone totale, che va eseguito al mattino a digiuno, tra le ore 7 e le ore 11. Tuttavia, è importante confermare la presenza di bassi livelli di questo ormone in una seconda occasione, poiché le variazioni giornaliere del testosterone sono tali che non rendono sufficientemente attendibile la diagnosi eseguita su un singolo prelievo.

Inoltre, è giusto ricordare che il testosterone totale rappresenta la somma del testosterone libero e di quello legato alle proteine di trasporto (in particolare SHBG – sex hormone binding globulin – e albumina). Rispetto al totale, solo il 2-4% del testosterone circolante è presente nella forma libera. Nei casi in cui i livelli di testosterone totale risultino incerti o nei casi in cui siano presenti delle altre condizioni che possano ridurre (obesità, diabete mellito tipo 2, ipotiroidismo) o aumentare (età avanzata, infezione da HIV, uso di farmaci antiepilettici, ipertiroidismo) le concentrazioni di SHBG, è opportuno completare la diagnosi biochimica dosando il testosterone libero.

In quest’ambito, tutte le linee guida sono concordi nello sconsigliare il dosaggio diretto del Testosterone libero, in quanto i dosaggi oggi disponibili sono inaccurati. Piuttosto, è opportuno utilizzare un algoritmo matematico, liberamente accessibile, che stima la concentrazione libera dell’ormone a partire dai livelli di testosterone totale, SHBG e albumina.

Capire l’origine dell’ipogonadismo

Una volta confermata la presenza di bassi livelli di testosterone (totale e/o libero), un altro passo fondamentale è capire l’origine dell’ipogonadismo. In linea generale, bassi livelli di testosterone possono essere associati ad elevati livelli di gonadotropine (LH e FSH), due ormoni prodotti da una ghiandola che si chiama ipofisi, in un quadro che richiama un danno del testicolo e che viene classificato come ipogonadismo ipergonadotropo o ipogonadismo primario. Oppure, possono essere associati a ridotti livelli di gonadotropine, che indicano un danno a livello dell’ipofisi e che caratterizzano il quadro di ipogonadismo ipogonadotropo (o ipogonadismo secondario).

Questa prima classificazione deve poi guidare alla successiva esecuzione degli esami necessari a condurre ad una definitiva caratterizzazione della causa dell’ipogonadismo.

Le principali cause

Le principali cause di ipogonadismo sono le seguenti:

  • Ipogonadismo primario:
    • Sindrome di Klinefelter
    • Criptorchidismo
    • Traumi/infezioni/interventi testicolari
    • Età avanzata
  • Ipogonadismo secondario:
    • Tumori o malattie infiltrative dell’area ipotalamo/ipofisaria
    • Iperprolattinemia
    • Malattie sistemiche (obesità, insufficienza d’organo)
    • Terapia steroidea cronica
    • Forme idiopatiche

Da questo rapido excursus, risulta chiaro che la diagnosi di ipogonadismo è tutt’altro che semplice e che il maschio che presenta uno o più sintomi riferibili a questa patologia debba rivolgersi ad uno specialista che possa guidarlo ad un adeguato iter diagnostico, al fine di inquadrare e riconoscere correttamente un disordine che ha una così importante influenza sulla salute del maschio.

 

Bibliografia di riferimento

Bhasin S, Brito JP, Cunningham GR, Hayes FJ, Hodis HN, Matsumoto AM, Snyder PJ, Swerdloff RS, Wu FC, Yialamas MA. Testosterone Therapy in Men With Hypogonadism: An Endocrine Society Clinical Practice Guideline. J Clin Endocrinol Metab. 2018 May 1;103(5):1715-1744. doi: 10.1210/jc.2018-00229. PMID: 29562364.

Barbonetti A, D’Andrea S, Francavilla S. Testosterone replacement therapy. Andrology. 2020 Nov;8(6):1551-1566. doi: 10.1111/andr.12774. Epub 2020 Mar 9. PMID: 32068334.

Lunenfeld B, Mskhalaya G, Zitzmann M, Corona G, Arver S, Kalinchenko S, Tishova Y, Morgentaler A. Recommendations on the diagnosis, treatment and monitoring of testosterone deficiency in men. Aging Male. 2021 Dec;24(1):119-138. doi: 10.1080/13685538.2021.1962840. PMID: 34396893.

Salonia A, Bettocchi C, Boeri L, Capogrosso P, Carvalho J, Cilesiz NC, Cocci A, Corona G, Dimitropoulos K, Gül M, Hatzichristodoulou G, Jones TH, Kadioglu A, Martínez Salamanca JI, Milenkovic U, Modgil V, Russo GI, Serefoglu EC, Tharakan T, Verze P, Minhas S; EAU Working Group on Male Sexual and Reproductive Health. European Association of Urology Guidelines on Sexual and Reproductive Health-2021 Update: Male Sexual Dysfunction. Eur Urol. 2021 Sep;80(3):333-357. doi: 10.1016/j.eururo.2021.06.007. Epub 2021 Jun 26. PMID: 34183196.

Quando una coppia decide di affidarsi alla medicina della riproduzione e alla PMA, procreazione medicalmente assistita, inizia un vero e proprio percorso, da affrontare passo dopo passo. Le tappe sono numerose e talvolta non chiare. Ne abbiamo parlato con il Dottor Marco Galletta, ginecologo, esperto di infertilità di coppia e Procreazione Medicalmente Assistita.

Il cammino della procreazione assistita può essere diviso sostanzialmente in due percorsi. Un primo percorso inizia quando la coppia infertile si avvicina ad un centro di PMA.

Il primo colloquio

Durante il primo colloquio preconcezionale lo specialista ginecologo raccoglie tutte le informazioni sulla coppia: fattori di rischio, l’età dei partner, gli eventuali esami già in possesso, i mesi di ricerca della prole. Ciò consente allo specialista di valutare la situazione clinica complessiva della coppia e di pianificare l’iter diagnostico terapeutico.

Gli esami

Uomini e donne, naturalmente, eseguono esami differenti.
Quelli per la donna, generalmente sono:

  1. Una visita ginecologica con ecografia, per valutare la riserva ovarica e studiare l’apparato genitale interno ed eventuali anomalie ormonali (mediante studio ormonale ed ecografico)
  2. Il Pap-Test
  3. Un tampone cervico-vaginale eseguito mediante tamponi cervicali (di cui uno specifico per Clamydia e tamponi vaginali per la diagnosi di germi comuni, streptococco agalactie, trichomonas vaginalis, gardnerella vaginalis, micoplasma hominis, ureoplasma urealyticum, N. gonorrea)
  4. Esami del sangue per i Markers virali: Anti-HIV-1,2, HBsAg, Anti-HBc, Anti-HCV Ab, Treponema pallidum, toxoplasma, CMV

I partner maschili eseguono:

  1. Le analisi quantitative e funzionali del campione seminale: spermiogramma e spermiocoltura (Clamydia, germi comuni, streptococco agalactie, trichomonas vaginalis, gardnerella vaginalis, micoplasma hominis, ureoplasma urealyticum, N.gonorrea)
  2. Esami del sangue per i Markers virali: Anti-HIV-1,2, HBsAg, Anti-HBc, Anti-HCV Ab, Treponema pallidum, CMV
  3. Se il singolo caso lo richiede, viene eseguita una visita urologica-andrologica

Se già in questa fase l’analisi della documentazione medica fornita si rivelasse chiara ed esaustiva, verrà comunicata alla coppia la eventuale diagnosi di infertilità e la successiva proposta terapeutica.

Oppure, il medico prescriverà gli ulteriori accertamenti ritenuti necessari, che completeranno la cartella clinica in modo da formulare alla coppia una diagnosi e una proposta terapeutica nel corso del secondo colloquio.

Supporto psicologico

Come previsto dalla Legge 40/2004 ogni centro di Procreazione Medicalmente Assistita, dovrebbe poter offrire un supporto psicologico alle coppie.

Il colloquio è caldamente consigliato, per:

  • assistere la coppia prima e durante la procedura;
  • aiutare l’elaborazione del lutto in caso di insuccesso della procedura;
  • sostenere la coppia nella scelta di affrontare altri tentativi o di scegliere strade diverse.

Con il secondo colloquio, la coppia si addentra nelle varie fasi relative alle tecniche proposte, sempre affiancata dallo staff medico specializzato nella medicina della riproduzione.

TECNICHE DI PMA DI I LIVELLO

Inseminazione intrauterina (IUI)

La tecnica IUI consiste nella deposizione del liquido seminale in vari tratti dell’apparato genitale femminile, per facilitare l’incontro del gamete maschile e femminile qualora questo non sia ostacolato da lesioni tubariche o pelviche.

L’obiettivo di questa tecnica è aumentare le probabilità di fecondazione stimolando una crescita follicolare multipla e bypassare il canale cervicale, talvolta sede della causa della sterilità. Inoltre, si mira ad avvicinare i gameti alla sede naturale della fecondazione.

Le indicazioni per l’adozione di questa tecnica sono:

  • Sterilità inspiegata
  • Infertilità maschile di grado lieve-moderato
  • Endometriosi I-II stadio e casi selezionati di III-IV stadio della classificazione AFS (American Fertility Society) in particolare dopo intervento chirurgico
  • Ripetuti insuccessi di induzione della gravidanza con stimolazione dell’ovulazione e rapporti mirati
  • Patologie sessuali e coitali che non hanno trovato giovamento dall’inseminazione intracervicale semplice
  • Fattore cervicale

Sedi dell’inseminazione:

  • in vagina (inseminazione intravaginale);
  • nel canale cervicale (inseminazione intracervicale);
  • nella cavità uterina (inseminazione intrauterina).

La coppia viene esaminata, quindi, preliminarmente sia sotto l’aspetto ginecologico, andrologico ed anche di salute generale.

Condizioni indispensabili per effettuare la tecnica IUI sono dunque:

  • Pervietà tubarica
  • Cavità uterina esente da patologie
  • Presenza di un adeguato indice di fertilità maschile richiesto per l’attuazione delle tecniche summenzionate
  • Età della partner femminile non superiore ai 43 anni

TECNICHE DI PMA DI II LIVELLO

Le tecniche di secondo livello prevedono che la fecondazione dell’ovocita avvenga al di fuori del corpo umano e presentano una maggiore invasività.

Fase della stimolazione ormonale.

 E’ prevista una fase iniziale della durata di circa 15 gg di stimolazione, con somministrazione di farmaci e relativo monitoraggio ecografico ed ormonale.

L’obiettivo è di indurre una crescita follicolare multipla, per avere un congruo numero di ovociti da fecondare e conseguentemente di embrioni.  Esistono differenti tipologie di protocolli di stimolazione: lungo , corto, mild, Dual stim, scelti in base alla situazione clinica della paziente e la diagnosi effettuata.

I farmaci utilizzati possono essere  diversi: se necessaria la sincronizzazione per la stimolazione ovarica si utlizzano preparati estroprogestinici, (pillola anticoncezionale), il citrato di clomifene (un antiestrogeno) le gonadotropine (FSH ricombinante alfa/beta/delta, Lh ricombinante, HMG, e la Corifollitropina.

Dopo aver spiegato le modalità di somministrazione si procede al monitoraggio ecografico transvaginale della crescita follicolare, associato ai prelievi ormonali.

A seconda del protocollo utilizzato,  prima o durante la stimolazione si utilizzano dei farmaci analoghi/antagonisti del GnRH onde prevenire o ritardare il prematuro picco di LH endogeno responsabile di un’eventuale ovulazione precoce.

Quando lo sviluppo dei follicoli avrà raggiunto circa i 17-18 mm di diametro sarà indotta la maturazione finale ovocitaria o con gonadotropina corionica o agonista del GnRH, se durante il percorso sono emerse indicazioni differenti.

Fase della raccolta e preparazione del liquido seminale

Il giorno in cui si effettua il prelievo ovocitario si invita il partner alla produzione del liquido seminale, anche se in alcuni casi può essere precedentemente crioconservato, o estratto dal testicolo e/o epididimo tramite recupero chirurgico (Pesa, Tesa). Lo sperma verrà trattato con metodiche atte ad indurre la capacità fecondante degli spermatozoi.

Fase del prelievo ovocitario

Si tratta di una procedura chirurgica di basso livello di invasività in cui si procede all’aspirazione dei follicoli ovarici per il recupero degli ovociti. La procedura viene eseguita con un ago montato sulla sonda transvaginale attraverso una guida da biopsia, sotto guida ecografica.

In questa sede non si tratteranno eventuali complicanze del percorso sia farmacologico che chirurgico femminile/maschile, o della possibilità di crioconservazione dei gameti maschili o femminili.

Fase della inseminazione ovocitaria

Descritta la prima fase comune, gli ovociti vengono inseminati con metodiche diverse, che vediamo qui di seguito.

Fivet

La tecnica Fivet è normalmente scelta in caso di occlusione tubarica bilaterale. In questo caso, si procede con la preparazione del liquido seminale.

Capacitazione liquido seminale con tecniche di PMA

Se il liquido seminale risulta idoneo alla FIV, si procede con la alla fase di inseminazione extracorporea che normalmente avviene nelle vie genitali femminili. Il liquido seminale viene aggiunto alla coltura contenente gli ovociti prelevati in precedenza, procedendo.

Gli ovociti vengono riportati in incubazione per altre 24/48 ore e procederanno nel loro sviluppo effettuando due/tre divisioni cellulari (2, 4, 8 cellule). Se si desidera effettuare il transfer allo stadio di blastocisti, gli embrioni rimarranno fino alla trasformazione in blastocisti (giorni utili: +5, +6, +7).

ICSI (Iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo)

Le indicazioni sono sostanzialmente legate alle caratteristiche del liquido seminale, o alla storia riproduttiva della coppia intesa come pregressi fallimenti di FIV.

Mediante osservazione al microspopio viene selezionato lo spermatozoo ritenuto idoneo e microiniettato all’interno dell’ovocita. Questo viene prima decumulato ossia vengono asportate le cellule del cumulo ooforo, circa due ore dopo il prelievo, in modo da ottenere una valutazione realistica della morfologia ovocitaria e maturità nucleare. Normalmente solo gli ovociti maturi in Metafase II, con evidente corpuscolo polare, vengono considerati idonei ed utilizzati.

Fase dello sviluppo embrionario

Circa 18 ore dopo l’inseminazione, l’embriologo valuterà al microscopio l’avvenuta fertilizzazione – siamo allo stadio di zigote – che, se avvenuta in modo regolare, evidenzierà la presenza di due pronuclei e si proseguirà con il monitoraggio della coltura ad intervalli regolari.

Se venisse evidenziata un’anomalia della fertilizzazione che porti allo sviluppo di un embrione non compatibile con la vita post natale, l’equipe comunicherà alla coppia l’anomalia dello stesso il cui sviluppo verrà seguito fino al suo naturale estinguersi in accordo alla normativa vigente.

Dopo ulteriori 24 ore si valuteranno lo sviluppo embrionario, il numero di blastomeri, se simmetrici o no, e la percentuale di frammenti prodotti.

Al massimo, la coltura viene prolungata fino a 120 ore, ossia fino allo stadio di blastocisti la cui valutazione si basa sempre su criteri morfologici (Massa cellulare interna, trofoectoderma). In casi selezionati e precedentemente discussi, è questa la fase in cui viene eseguita la biopsia embrionaria per la Diagnosi Genetica pre-impianto.

Normalmente si propone di proseguire la coltura fino allo stadio di blastocisti in base al numero di embrioni evolutivi in day 2 e relativa morfologia.

Transfer: può essere effettuato al giorno +2 (48 ore) con embrioni a 2/4 cellule; a giorno +3 (72 ore) con embrioni a 6/8 cellule; raramente a giorno +4 (96 ore) allo stadio di morula; a giorno +5, (> 120 ore) con embrioni allo stadio di blastocisti. A transfer eseguito, ci si accerta che non vi siano rimasti embrioni adesi alle pareti del catetere utilizzato.

Fase dell’embriotransfer

Come già indicato tra i 2/5 gg dal prelievo ovocitario si esegue il trasferimento degli embrioni utilizzando un catetere transcervicale. Secondo le principali Società Scientifiche, il Gold standard è il trasferimento di 2 embrioni, per ottenere una gravidanza.

Il numero viene deciso preventivamente dal medico in accordo con la coppia nel rispetto della vigente normativa.

Se al 5 giorno ci fossero embrioni sovrannumerari potranno essere crioconservati.

 

Riassunto delle fasi in precedenza descritte

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Le Fasi della PMA

Preservare la fertilità sia femminile sia maschile oggi è possibile, grazie a procedure innovative. Sembra semplice, ma in realtà si tratta di procedure delicate, gestite da professionisti estremamente qualificati nell’ambito della medicina della riproduzione. Il percorso terapeutico per poter prelevare gli ovociti della donna, ad esempio, prevede alcuni step.

Ne abbiamo parlato con la Prof.ssa Alessandra Andrisani, MD PhD, ObGyn.

La preservazione della fertilità

La preservazione della fertilità è una procedura medica innovativa. É disponibile grazie alle recenti acquisizioni ed ai miglioramenti di competenze nel campo delle tecniche di crioconservazione di materiale biologico. Grazie a questa tecnologia, attualmente è possibile crioconservare i gameti (ovociti e spermatozoi) ed il tessuto gonadico. Il fine è di aumentare la probabilità di ottenere una gravidanza ed esaudire il proprio desiderio di genitorialità nel momento in cui dovessero esservi delle difficoltà ad ottenerla spontaneamente.

Oncofertility e Social freezing

Come la scienza e la medicina possono aiutare le persone a preservare la loro fertilità? Attraverso la “oncofertility” ed il “social freezing”.

Con il termine oncofertility, si intendono le procedure terapeutiche di preservazione della fertilità in donne che sono affette da patologie oncologiche. In senso lato, di tutte le persone affette da quelle patologie che, di per sé o a causa delle cure previste per il loro trattamento, hanno effetti negativi diretti o indiretti sulla fertilità.

Tra le terapie più frequentemente responsabili di danno alla fertilità vi sono: chemioterapia, chirurgia e radioterapia.

Non va dimenticato il tempo necessario per la cura, che comporta un invecchiamento del paziente nell’attesa della completa guarigione.

  • Gli ovociti sono molto sensibili all’azione di alcuni chemioterapici e possono subirne, in relazione al tipo, alla dose e al tempo di utilizzo, una riduzione o perdita irreversibile. Nei casi più gravi, infatti, quando l’entità del danno è a carico di tutte le cellule dell’ovaio, si può instaurare una condizione di “insufficienza prematura della funzione dell’ovaio”. Questa condizione, iatrogena, è caratterizzata da una mancanza di ovociti indispensabili per la riproduzione, con un danno grave, se non irreversibile, sulla fertilità
  • Similmente, la terapia chirurgica per patologie delle ovaie può danneggiarne la funzione, inducendo una drastica riduzione del tessuto sano
  • Infine, anche la radioterapia può danneggiare gravemente e irrimediabilmente la funzione ovarica quando coinvolge la regione della pelvi, dove sono alloggiati gli organi genitali femminili.

Tutti i precedenti trattamenti possono, quindi, comportare una menopausa precoce e, di conseguenza, infertilità.

Quando si parla di “social freezing”, invece, si fa riferimento ad una tecnica di “prevenzione dell’infertilità età-correlata”. Vi si sottopongono in particolare donne che per motivi personali (studio, lavoro, assenza di un partner) vogliono preservare la fertilità e ricercare una gravidanza più avanti nel tempo, quando fisiologicamente sarebbe meno probabile ottenerla.

Crioconservazione degli ovociti: la procedura

La crioconservazione ovocitaria è attualmente la tecnica più utilizzata sia per l’oncofertilità che per il social freezing nella popolazione femminile.

In Italia, in caso di malattia oncologica, viene proposta a tutte le pazienti con un’adeguata riserva follicolare che hanno la possibilità di posticipare il trattamento chemioterapico di 2-3 settimane.

Per poter prelevare gli ovociti della donna, il percorso terapeutico prevede i seguenti step:

  • Stimolazione ovarica controllata alla paziente vengono prescritti farmaci che stimolano la crescita dei follicoli ovarici, allo scopo di ottenere più ovociti possibili e di controllare il momento dell’ovulazione. In particolare, la somministrazione dei farmaci avviene giornalmente e la donna andrà incontro ad una serrata valutazione clinica, ecografica e ormonale. Questa fase dura generalmente 10-15 giorni.
  • Prelievo degli ovociti (Pick-up ovocitario) – tutti i follicoli ovarici cresciuti durante la stimolazione ormonale vengono punti e aspirati con un ago per via trans-vaginale sotto controllo ecografico. All’interno del liquido prelevato dai follicoli si trovano gli ovociti, e il biologo li ricercherà al microscopio. L’intervento chirurgico dura circa 15-20 minuti ed è effettuato in sedazione.
  • Crioconservazione ovocitario – prima della crioconservazione, gli ovociti in adeguata fase di maturazione vengono identificati tramite decoronazione (ovvero rimozione della zona pellucida esterna). Essi verranno poi crioconservati mediante tecnica di vitrificazione con azoto liquido. Riguardo la procedura di crioconservazione, le ultime evidenze supportano l’idea che non vi siano sostanziali differenze tra la qualità degli ovociti crioconservati e quelli freschi. Tuttavia, i dati in letteratura scientifica non sono ancora risolutivi.
  • Scongelamento ovocitario – nel caso in cui la donna decida di utilizzare i propri ovociti per ottenere una gravidanza in un secondo momento, essi verranno scongelati e fecondati in laboratorio con il seme del partner secondo la tecnica di microiniezione dello spermatozoo (ICSI). Attenzione va data al fatto che non tutti gli ovociti crioconservati risultano poi vitali al momento dello scongelamento e, in alcuni casi estremi, tutti gli ovociti scongelati possono non essere vitali.
  • Trasferimento embrionario – nel caso in cui tutti i processi precedenti abbiano portato alla creazione di almeno un embrione vitale, è possibile giungere infine al transfer dell’embrione. Tale procedura è ambulatoriale e prevede unicamente una adeguata preparazione endometriale (in ciclo spontaneo o medicato). Il tasso di successo è dipendente da numerose variabili, ma per una donna di 30 anni, in assenza di fattori genetici o maschili noti, si può attestare intorno al 30%.
Probabilità di successo della crioconservazione degli ovociti

La probabilità di successo di un ciclo di preservazione della fertilità è essenzialmente collegata alla riserva ovarica e, quindi, alla eventuale risposta alla stimolazione ovarica controllata. Ovvero, quanto più le ovaie risponderanno alla stimolazione con la crescita di follicoli, quanti più ovociti verranno potenzialmente crioconservati. E quanti più ovociti la donna avrà, tanto più alta sarà la probabilità di ottenere una gravidanza in futuro.

Generalmente si ritiene che il tentativo di preservazione della fertilità sia andato a buon fine se si congelano almeno 10 ovociti. Tale probabilità, ovviamente, si riduce progressivamente con la riduzione del numero di ovociti recuperati.

La crioconservazione del tessuto ovarico

In alternativa, è possibile ricorrere alla crioconservazione di tessuto ovarico.

La tecnica

La tecnica di crioconservazione di tessuto ovarico non è più considerata sperimentale dall’American Society of Reproductive Medicine nell’ambito adulto dal 2019. Nella popolazione pediatrica, invece, i dati di efficacia sono ancora limitati.  Questa tecnica rappresenta l’unica opzione di preservazione della fertilità, sia per le pazienti prepubere sia per tutte le pazienti in cui non sia possibile la stimolazione follicolare (per controindicazioni mediche o mancanza di tempo).

La crioconservazione di tessuto ovarico richiede, in tempi diversi, due interventi chirurgici (espianto e reimpianto di tessuto ovarico), preferibilmente effettuati tramite chirurgia laparoscopica.

Il reimpianto del tessuto ovarico

Comunemente il reimpianto di tessuto ovarico può essere eseguito per promuovere la fertilità quando le pazienti sono pronte a concepire. Il reimpianto può essere ortotopico (si crea chirurgicamente una piccola tasca dove alloggiare il tessuto reimpiantato all’interno dell’ovaio) o eterotopico (più frequentemente a livello dell’avambraccio). In generale, è stato osservato che, dopo il reimpianto, la funzione ovarica riprende tra i 60 e i 240 giorni e può durare fino a 7 anni.

Potenzialmente, il reimpianto ortotopico potrebbe consentire anche la ripresa della funzionalità ovarica e l’insorgenza di una gravidanza spontanea, senza ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita.

Esiste una legittima preoccupazione per quanto riguarda la potenziale reintroduzione di cellule tumorali in seguito a trapianto di tessuto ovarico in pazienti oncologiche. Per le conoscenze attuali, relativamente al rischio di contaminazione è possibile solo stratificare le neoplasie come ad alto, medio o basso rischio di colonizzazione del tessuto ovarico da parte delle cellule neoplastiche e quindi è possibile dare solo un’indicazione generica sulla sicurezza del reimpianto del tessuto ovarico.

La fertilità non è eterna. Alzi la mano chi non lo sa… Spesso, però, ce ne rendiamo conto veramente quando è già compromessa. Eppure, qualcosa possiamo fare a tutela della nostra fertilità.

Ne parliamo con la Prof.ssa Alessandra Andrisani, MD PhD, ObGyn.

I dati dell’ISS

Dati pubblicati nell’ultimo resoconto dell’ISS evidenziano come la sterilità sia una patologia che oramai ha acquisito le dimensioni di un vero e proprio problema sociale, che interessa circa il 20% della popolazione in età fertile nel mondo. Vale la pena ricordare che, solo nel nostro paese, circa il 3% delle nascite avviene grazie ai trattamenti di Procreazione Medicalmente Assistita.

La Tutela della Salute riproduttiva è stata addirittura oggetto di una campagna del Ministero della Sanità. Nel 2015, infatti, ha strutturato un piano finalizzato ad informare i cittadini sul ruolo della fertilità nella loro vita, fornire assistenza sanitaria qualificata per difendere la fertilità (interventi di prevenzione e diagnosi precoce), preservare la fertilità naturale dei soggetti e sviluppare nelle persone la conoscenza del “funzionamento della fertilità” così da poterla utilizzare scegliendo di avere un figlio consapevolmente ed autonomamente.

Il razionale della preservazione della fertilità

In questo contesto, il razionale della preservazione della fertilità si sviluppa in due possibili scenari:

  • La tutela della salute riproduttiva, intesa come prevenzione, in pazienti affetti da una patologia oncologica, cronica e/o che necessiti di cure tempestive, con un impatto diretto o indiretto sulla funzionalità del sistema riproduttivo, che possono ritardare o affliggere la ricerca di una futura gravidanza (in particolare malattie oncologiche, malattie autoimmuni che richiedano l’uso di farmaci chemioterapici, endometriosi…).
  • La tutela della fertilità per quelle donne che per motivi personali (studio, lavoro, assenza di un partner stabile…) non desiderino immediatamente una gravidanza ma desiderino comunque garantirsi una ragionevole probabilità di poter realizzare in futuro il loro progetto di famiglia. Tale condizione prende il nome di preservazione della fertilità per motivi sociali o “social freezing”.
Il ruolo dell’età della donna

Tutta la letteratura scientifica è oramai concorde nell’affermare che l’età, in particolare per la donna, si associ ad una progressiva perdita del potenziale riproduttivo. Infatti, il livello di fertilità della donna raggiunge l’apice tra i 20 e i 27 anni. Dopo i 35 anni, invece, si manifesta un netto declino nella qualità delle cellule uovo.

Sebbene la tecnologia medica abbia reso possibile la gravidanza a donne di quarant’anni e più (persino di 50), si tratta, in generale, di gravidanze in cui si è fatto ricorso a ovuli donati da donne molto più giovani. Questo fenomeno è estremamente fuorviante perché agli occhi della popolazione generale, una donna resta fertile in misura normale fino ad età in cui, nella realtà, è altamente improbabile l’ottenimento di una gravidanza spontanea, o quantomeno con i propri ovociti.

Per dare un’idea più concreta, si stima che la probabilità di concepimento quando i partner di una coppia sono coetanei e dopo un anno di rapporti sessuali non protetti sia: a 20 anni il 90%, a 30 anni il 70%, a 35 anni il 55%, a 40 anni il 45% e a 45 anni il 6%. A di sopra di questo limite di età, le gravidanze spontanee o con ovociti della donna sono aneddotiche.

Anche la fertilità maschile è età-dipendente?

Non solo la fertilità femminile è età-dipendente, ma anche quella maschile. L’età, infatti, gioca un ruolo chiave anche per il futuro papà. Stando ai risultati dello Studio Nazionale Fertilità promosso dal Ministero della salute e coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, ben nove persone su dieci ignorano questa importante informazione. Inoltre, non sono consapevoli del fatto che se l’uomo ha superato i 35 anni di età, potrebbe incontrare delle difficoltà nel diventare padre. Dai 30 anni in poi il calo dell’ormone testosterone è pari all’1% all’anno.

La produzione fisiologica di spermatozoi prosegue per tutta la vita dell’uomo, dalla pubertà alla vecchiaia, ma è soggetta a un calo naturale, parallelamente all’invecchiamento. Purtroppo però molti maschi non lo sanno e pensano, sbagliando, che il loro potenziale riproduttivo sia immutabile per sempre.

Secondo uno studio dell’ISS pubblicato dal Ministero della Salute, solo il 5% tra più di 20000 persone ascoltate, è risultato consapevole che l’orologio biologico femminile subisce un pesante impatto già dopo i 30 anni, mentre il 27% ritarda questo momento di 10 anni o più.

La stessa mancanza di consapevolezza riguarda anche il sesso maschile. Ben pochi sanno che l’età gioca un ruolo importante anche per la fertilità maschile: per 4 giovani studenti dell’università su 10 l’orologio biologico maschile non esiste affatto, il 10% dichiara di non saperlo, la quota restante attribuisce alla fertilità maschile tempi più lunghi.

La fertilità non è eterna e va tutelata

In questo scenario come comportarsi se si desidera realizzare il proprio progetto di famiglia?

  1. È importante acquisire la consapevolezza che la fertilità sia maschile che femminile non è eterna, bensì è fortemente correlata con l’età, per cui l’ideale sarebbe cercare una gravidanza prima del compimento dei 35 anni. Oltre a questo, è fondamentale la “Tutela della salute Riproduttiva”: è cioè importante acquisire le conoscenze e la consapevolezza che corrette abitudini e stili di vita sono fondamentali per salvaguardare il nostro potenziale riproduttivo.
Tutelare la salute riproduttiva: qualche consiglio
  • Alimentazione corretta – Una corretta alimentazione fin dalla prima infanzia ed un adeguato peso corporeo si associano ad una migliore fertilità. È oramai noto che nella donna l’obesità si associa ad alterazioni del ciclo mestruale fino alla completa assenza di ovulazione con conseguente amenorrea, e spesso anche ad un aumentato rischio di aborti; nell’uomo invece si associa ad una riduzione dei livelli di testosterone ematico e ad alterazioni del liquido seminale. Una riduzione di peso corporeo di almeno il 6% sembra determinare nel 70% dei casi un recupero ottimale della fertilità. Danni analoghi all’obesità sono quelli dovuti ad una eccessiva magrezza.
  • Sessualità responsabile – Anche banali infezioni, se trascurate, possono comportare conseguenze negative a lungo termine sulla fertilità. Un atteggiamento responsabile verso la sessualità, e l’utilizzo di contraccettivi di barriera come il profilattico può aiutare a prevenire tali condizioni. Inoltre, sottoporsi a controlli ginecologici periodici e l’esecuzione del PAP test sono strumenti in grado di garantire una diagnosi precoce e la cura tempestiva di patologie infettive a rischio per il sistema riproduttivo.
  • Uso e abuso di alcol e sostanze stupefacentiInfine, bisogna ricordare che anche l’alcol e le sostanze stupefacenti sono fattori di rischio capaci di influenzare negativamente la salute sessuale e riproduttiva di un individuo. I cannabinoidi possono interferire con l’impianto degli embrioni e la motilità degli spermatozoi. Il consumo eccessivo di alcol, nella donna, altera i meccanismi dell’ovulazione e dello sviluppo ed impianto dell’embrione; nell’uomo, invece, danneggia i testicoli, riduce i livelli di testosterone e danneggia la maturazione degli spermatozoi.
  • Attività fisica – Lo sport, se praticato con equilibrio e costanza, è utile a garantire un buono stato di salute generale e riproduttiva. Tuttavia, sia l’eccessiva sedentarietà, sia un’attività fisica troppo intensa, possono alterare l’assetto ormonale e riproduttivo sia maschile che femminile.

Nella PMA, la ricettività endometriale e l’impianto dell’embrione sono due aspetti fondamentali. Una delle prospettive meno conosciute è il punto di vista del biologo.

Abbiamo chiesto di parlarcene alla Dottoressa Nicoletta Maxia, biologa, embriologa da 30 anni, specializzata in Genetica Medica.

PMA e ricerca scientifica

Uno degli aspetti più interessanti e nevralgici nel percorso della procreazione medicalmente assistita (PMA) è sempre stato quello dell’impianto dell’embrione che viene trasferito nell’utero materno.

Per un team di professionisti che si occupa di pma, oltre alla pratica clinica quotidiana dovrebbe essere al pari importante anche la ricerca. L’impianto dell’embrione, infatti, andrebbe trattato come oggetto di studio, soprattutto personalizzandolo.

Studio della ricettività endometriale

Alcuni studi di citomorfologia all’università di Cagliari sono stati determinanti per comprendere meglio la morfologia endometriale durante le fasi del ciclo mestruale della donna. Tali studi sono stati condotti analizzando il tessuto d’impianto con la tecnica della microscopia elettronica (SEM).

In base a tale esperienza di ricerca è mia opinione che nel gruppo di pazienti con ripetuti fallimenti bisognerebbe studiare e personalizzare il timing o finestra d’impianto. Ritengo, infatti, che sia preferibile trasferire gli embrioni solo dopo aver determinato le 48 h circa o comunque avvicinarsi al migliore stadio di ricettività per la singola paziente.

Nel 2013 tali studi hanno portato alla realizzazione di un brevetto di cui sono inventrice.[1]

Il ruolo dei pinopodi

I pinopodi sono particolari “formazioni” cellulari che rivestono la superficie più esterna dell’endometrio. Lo studio dei pinopodi è un valido metodo biologico per la valutazione della recettività uterina: in che modo? Determinandone il grado di sviluppo (estroflessione) e la quantità presente.[2]

Dall’analisi dei pinopodi, la letteratura suggerisce che ci sia una correlazione fra:

  • numerosità dei pinopodi, massima estroflessione e maggiori gravidanze ottenute
  • viceversa, pazienti con ripetuti fallimenti e incapacità dell’endometrio a produrre i pinopodi.

La mia esperienza biologica consiste nello studio citomorfologico del ciclo ovarico femminile, attraverso sia un microscopio elettronico sia un invertoscopio a forti ingrandimenti a fresco (6600x).

Le fasi

Dalla fase follicolare all’ovulazione e successivamente la preparazione all’impianto con la fase luteale si caratterizzano attraverso lo sviluppo dei pinopodi.

  • Inizialmente, l’endometrio si presenta con un’esplosione di numerosi microvilli più o meno sviluppati. I microvilli creano delle “infiorescenze”.
  • Man mano che si arriva al momento ovulatorio, tali microvilli si retraggono facendo affiorare delle strutture tondeggianti (pinopodi iniziali. Ultimata l’ovulazione, i pinopodi aumentano maggiormente di numero ed estroflessione, fino a raggiungere un “PLATEAU” che definisce la migliore finestra d’impianto dell’embrione all’utero materno.
  • Da questo momento in poi, i pinopodi iniziano una debole involuzione fino ad andare in apoptosi. Ciò determina la rottura apicale delle cellule esitando successivamente in ciclo mestruale se la gravidanza non si è instaurata.
Le immagini

Queste foto di microscopia elettronica (SEM) mostrano la ciclicità uterina endometriale

L'inizio del ciclo L’inizio del ciclo

 

progetto iside inizio-della-fase-follicolare L’inizio della fase follicolare

 

La massima espressione pinopopdi La massima espressione dei pinopodi (migliore finestra di impianto)

Come calcolare il giorno del pick-up ovocitario?

Dal punto di vista biologico, l’analisi dei pinopodi consente di calcolare il giorno del pick-up ovocitario. Attraverso il prelievo di endometrio (leggera pipelle) effettuato il giorno del pick-up (mentre la paziente dorme, sotto anestesia) si stabilisce in che fase si trova e quale sarebbe il timing più idoneo per il transfer dell’embrione mantenuto in coltura.

Questa analisi è fondamentale nei casi di ripetuti fallimenti nell’impianto ma può essere proposta anche in un ciclo spontaneo (in occasione di un transfer da embrione crioconservato) non stimolato. In questo caso, la pipelle viene eseguita in fase ovulatoria. Naturalmente va esclusa la possibilità di una gravidanza possibile in atto.

Ogni paziente ha la sua migliore finestra di impianto

La valutazione della migliore finestra d’impianto va assolutamente fatta per la singola paziente. Occorre tenere presente che se si volesse trasferire per la stessa paziente su un ciclo stimolato, bisognerebbe anticipare di 24 h ore la finestra d’impianto e quindi il trasferimento dell’embrione (dati di letteratura).

In aggiunta, si potrebbe anche unire la valutazione del dosaggio del progesterone dal punto di vista endocrinologico.

Quanto descritto potrebbe essere considerato un valido metodo per stabilire con maggiore attendibilità la giusta “implantation window”, per poter trasferire l’embrione nell’utero materno nel momento di massima recettività.

L’obiettivo, naturalmente, anche per il biologo, è aumentare la percentuale di gravidanza attraverso le tecniche di procreazione medicalmente assistita.

[1] (nicoletta maxia patent)

[2] Nikas and Aghejanova et al, 2002.

Endometriosi e gravidanza: un binomio che sembra impossibile. Cos’è l’endometriosi? Quali sono i sintomi e quali le terapie? Chi soffre di questa patologia può realizzare il sogno di diventare mamma?

Ne abbiamo parlato con la Dr.ssa Sara Scandroglio, specialista in ginecologia e ostetricia.

Cos’è l’endometriosi

L’endometriosi viene definita come la presenza di tessuto simil-endometriale funzionale (epitelio, ghiandole e stroma) al di fuori della cavità uterina. Le cellule che compongono i focolai endometriosici, infatti, sono estremamente simili a quelle che compongono l’endometrio (la mucosa che riveste la superficie interna dell’utero) dal punto di vista strutturale e funzionale: il tessuto endometriosico si trova perciò in sede “ectopica” (dove normalmente non dovrebbe essere), ma risponde agli stimoli ormonali ciclici femminili esattamente come farebbe l’endometrio. Lo stimolo ormonale di natura estrogenica stimola la proliferazione delle cellule endometriosiche e, conseguentemente, determina la sintomatologia clinica [1].

La causa dell’endometriosi

Sebbene la causa dell’endometriosi non sia a tutt’oggi chiaramente definita, sono state sviluppate diverse ipotesi: secondo alcuni autori, le cellule endometriali sfaldate durante la mestruazione arriverebbero in cavità peritoneale attraverso le tube di Falloppio, mediante un processo definito “mestruazione retrograda”, e si impianterebbero; altre teorie ipotizzano che le cellule endometriosiche derivino da cellule staminali dislocate in sede ectopica durante il processo di organogenesi in fase embrionale, le quali rimarrebbero quiescenti durante la fase pre-puberale e si riattiverebbero durante la fase fertile della vita, in seguito agli stimoli ormonali [2].

A prescindere dalla modalità con la quale le cellule endometriosiche arrivano e si impianto in cavità pelvica, queste ultime in condizioni fisiologiche dovrebbero venire attaccate ed eliminate dal sistema immunitario (linfociti T, cellule Natural Killer e macrofagi) della paziente: nelle pazienti affette da endometriosi è stato osservato in numerosi studi che questo “controllo immunitario” a livello peritoneale appare limitato, per cui le cellule endometriosiche “evadono la sorveglianza” da parte del sistema immunitario e si impiantano e proliferano in cavità pelvica [3]. Appare chiaro perciò che la genesi della patologia sia riconducibile a diversi aspetti, non mutuamente esclusivi, di natura genetica, epigenetica ed immunologica.

Le caratteristiche della patologia

L’endometriosi si caratterizza come una patologia dell’età riproduttiva. Secondo le ultime linee guida dell’European Society of Human Reproduction and Embryology, la patologia colpisce circa una donna su dieci, ed è associata all’infertilità in circa il 50% dei casi [4]. Le sedi dove si sviluppano più frequente le lesioni endometriosiche sono: le ovaie, il peritoneo che riveste la cavità pelvica, il cavo di Douglas ed il setto-retto-vaginale ed i legamenti dell’utero. In una percentuale minore di casi viene interessato l’intestino e/o l’apparato urinario (soprattutto vescica ed ureteri. In casi estremamente rari la patologia può interessare sedi molto lontane dalla cavità pelvica, quali gli organi toracici o l’encefalo.

I sintomi

La sintomatologia è riconducibile principalmente al dolore pelvico acuto (usualmente in concomitanza della fase mestruale) e cronico, dispareunia (dolore durante i rapporti), sterilità/infertilità, sanguinamenti intermestruali. A questi si possono aggiungere alcuni sintomi specifici, quali dolore alla defecazione e sanguinamento rettale (in caso di interessamento intestinale) o ematuria (in caso di interessamento uretero-vescicale). Chiaramente la sintomatologia può presentare notevoli ripercussioni invalidanti sulla vita della paziente: basti solo pensare all’impatto che il dolore pelvico cronico può avere sul lavoro della donna o, parimenti, la presenza di dispareunia e l’infertilità sul rapporto di coppia [5]. Per questo motivo è assolutamente fondamentale avere un approccio multidisciplinare alla paziente, con professionisti di diverse discipline, possibilmente in centri di riferimento per il management della patologia [6].

La classificazione

Usualmente l’endometriosi viene classificata in 4 stadi secondo il “revised American Fertility Society score”, a seconda della gravità della patologia [7]. È importantissimo sottolineare, però, che non sempre lo stadio di malattia è correlato alla gravità della sintomatologia: anche pazienti al I-II stadio possono presentare elevati livelli di dolore pelvico o essere infertili. Dal punto di vista prettamente clinico, si distinguono tre tipi principali di lesioni endometriosiche: lesioni peritoneali superficiali, endometriomi (cisti endometriosiche) ovarici ed endometriosi profonda infiltrante (“Deep Infiltrating Endometriosis”). Quest’ultimo tipo è quello più difficile da trattare dal punto vista chirurgico e farmacologico, e che può comportare esiti invalidanti [8].

La diagnosi

Il sospetto diagnostico per endometriosi viene posto innanzitutto sulla base di un’accurata raccolta della storia clinica della paziente e della visita ginecologica (o rettale, in caso di paziente virgo), a cui segue usualmente il supporto ecografico, utile nella diagnosi di endometriomi e di focolai di endometriosi profonda infiltranti [9]; in casi selezionati si potranno utilizzare anche altre metodiche, quali la Risonanza Magnetica Nucleare o la cistoscopia per escludere la presenza di cistite interstiziale, che spesso si associa ad endometriosi. Sebbene ci sia anche la possibilità di utilizzare marcatori sierologici come il CA-125, le ultime linee guida dell’European Society of Human Reproduction and Embryology raccomandano di escluderli data la loro bassissima sensibilità e specificità (non è raro infatti avere valori di CA-125 nel range di normalità anche in caso di diagnosi accertata!) [4]. Una volta posto il sospetto diagnostico, il “gold standard” per la diagnosi è rappresentato dalla laparoscopia, cui deve seguire necessariamente conferma istologica dei campioni prelevati dai focolai visualizzati.

La terapia medica

La terapia medica si avvale dell’utilizzo di diversi preparati ad azione ormonale [10], quali i progestinici o gli estroprogestinici in regime continuativo (senza interruzione, al fine di evitare il sanguinamento pseudo-mestruale), somministrabili per via orale, vaginale, intrauterina (intrauterine device – IUD, cosiddetta “spirale”), transdermica o ancora mediante impianti sottocutanei. Qualora queste terapie dovessero risultare non sufficienti, c’è la possibilità di prescrivere gli analoghi del Gonadotropin-releasing hormone (GnRH), da riservare esclusivamente per brevi periodi di tempo (massimo 6 mesi), possibilmente con l’utilizzo contemporaneo di un estroprogestinico (cosiddetta “add-back therapy”) ed escludendo le pazienti adolescenti, considerando i deleteri effetti di questo farmaco sulla massa ossea.

La terapia chirurgica

La terapia chirurgia attualmente è principalmente laparoscopica [11], per il ridotto rischio di emorragia nel corso dell’intervento, la minore incidenza di aderenze post-operatorie, la riduzione della degenza e della convalescenza, il minimo danno estetico. Una delle nuove prospettive della chirurgia mini-invasiva è rappresentata altresì dalla chirurgia robotica. Qualunque sia la tecnica chirurgica utilizzata, è fondamentale l’eradicazione di tutto il tessuto patologico, l’elettrocoagulazione dei focolai peritoneali, e, per quanto possibile, il ripristino della normale anatomia e la preservazione del parenchima ovarico indenne. In ogni caso, chirurgia per endometriosi dovrebbe essere riservata a centri di riferimento [6], specialmente nel caso di endometriosi profonda infiltrante.

Il percorso di Procreazione Medicalmente Assistita

L’endometriosi nei suoi diversi stadi può comportare infertilità e in questo caso risulta fondamentale il ricorso precoce da parte della coppia a tecniche di Procreazione Medicalmente assistita. Il medico specialista ha il compito di informare la coppia e di avviarla ad un percorso specialistico volto all’ottenimento della gravidanza.

Secondo le ultime linee guida ESHRE solo in caso di coppia giovane con endometriosi stadio primo è possibile proporre un percorso di I livello con 3 cicli di inseminazione intrauterina, in tutti gli altri stadi di malattia, tenendo conto sia della componente infiammatoria della patologia che della riduzione della riserva ovarica che della distorsione della anatomia pelvica è indicato un percorso di IVF di II livello (FIVET o ICSI).

Ottenere la gravidanza risulta dunque possibile e la gravidanza stessa, con l’allattamento successivo potranno costituire fattori protettivi per tutto il periodo dalla sintomatologia dolorosa e dal peggioramento del quadro endometriosico.

Dr.ssa Sara Scandroglio, Specialista in Ginecologia e Ostetricia

 

Riferimenti bibliografici:

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