PMA: non solo laboratori e tecnologia

Quando si pensa alla procreazione medicalmente assistita, spesso si considerano gli aspetti più “tecnici”, di laboratorio, alle tecniche più complesse. Sono temi senz’altro importanti, di cui si parla molto, ancor più con l’arrivo dell’intelligenza artificiale.

C’è una fase della procreazione medicalmente assistita che a volte viene considerata quasi secondaria dalle coppie e che, invece, ha un’importanza sostanziale: è la fase di anamnesi, diagnosi e indicazione al trattamento.

Ne abbiamo parlato con la Dottoressa Maria Giuseppina Picconeri, ginecologa specializzata in fecondazione assistita, Responsabile del NIKE Medical Center di Roma.

Nella PMA si distinguono più livelli. Ci spiega cosa significa?

Sì, è vero: nella Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) si distinguono primo, secondo e terzo livello, a seconda della complessità delle tecniche utilizzate. Io ho scelto di fondare una struttura di primo livello perché ritengo essenziale focalizzare l’attenzione su una dimensione che talvolta rischia di essere trascurata: quella clinica, cioè sulla fase di diagnosi e indicazione al trattamento.

Tante coppie arrivano al centro quando la partner femminile ha già un’età avanzata e si considera la PMA come “ultima spiaggia”, a volte senza aver approfondito adeguatamente se ci sono ostacoli risolvibili anche con un approccio più semplice.

Negli ultimi anni, il focus si è spostato sempre più verso l’aspetto tecnico – laboratorio, dispositivi, intelligenza artificiale – mentre si è perso di vista il percorso di conoscenza e diagnosi che dovrebbe sempre precedere ogni trattamento.

Non tutte le gravidanze si cercano in laboratorio

Nella ricerca di una gravidanza che non arriva, sono molti gli aspetti da valutare. L’approccio multidisciplinare è essenziale, e si fonda sulla professionalità di un team specializzato: ginecologo, biologo, embriologo, e anche altri specialisti, quando servono.

Un centro di primo livello dovrebbe essere un luogo di prima accoglienza della coppia che pensa di essere infertile, dove eseguire tutte le indagini necessarie per comprendere se si tratta davvero di infertilità oppure solo di difficoltà di concepimento. Alcune condizioni cliniche preesistenti, infatti, come ad esempio ipertensione o trombofilie, o fattori ormonali o genetici, possono interferire con il concepimento, ma si possono gestire o risolvere senza ricorrere subito alla fecondazione in vitro. È anche da qui che può nascere l’indicazione corretta a un trattamento più avanzato, solo se davvero necessario.

C’è differenza, quindi, tra difficoltà di concepimento e infertilità vera e propria?

Certamente. L’infertilità, per definizione, è la mancata gravidanza dopo un anno di rapporti liberi e frequenti, che diventano sei mesi se la donna ha più di 35 anni. Ma oggi sempre più coppie si rivolgono a noi prima ancora di iniziare a provarci seriamente, spinte dalla paura che non succeda.
Questo ci permette di fare un lavoro prezioso: valutare l’ovulazione, la qualità del liquido seminale, la funzionalità tiroidea, la presenza di mutazioni genetiche… tutto ciò che può incidere sia sul concepimento sia sulla gravidanza stessa.

Qual è il valore diagnostico della PMA?

La PMA può diventare parte di un iter diagnostico. Quando non troviamo cause evidenti di infertilità, si parla di infertilità sine causa: significa che una causa c’è, ma non la conosciamo ancora o non la vediamo. In questi casi, anche la fecondazione in vitro ci può dare informazioni preziose: come reagiscono gli ovociti, come si sviluppano gli embrioni… Queste osservazioni ci aiutano a capire meglio cosa potrebbe impedire la gravidanza, studiando la coppia a 360°.

Una donna di 38 anni con ovaio micropolicistico, ad esempio, può ottenere una gravidanza anche solo con una stimolazione, senza ricorrere alla fecondazione in vitro. Io credo che l’approccio corretto sia: prima capire, poi intervenire. Solo così possiamo evitare sovratrattamenti e aiutare davvero le coppie. Anche perché la PMA non garantisce il 100% di successo, e quando non funziona, la coppia può sentirsi colpevole, come se il fallimento fosse loro. Ma in realtà non è così. Il problema potrebbe essere che, semplicemente, non conosciamo ancora tutto.

In effetti, molte coppie riescono a concepire naturalmente dopo un percorso di PMA…

Sì, mi è successo spesso: coppie che, dopo una gravidanza ottenuta con la fecondazione in vitro, concepiscono spontaneamente la seconda. In quel momento, magari avevano davvero bisogno di un aiuto tecnico, ma a volte ciò che serve realmente alla coppia è il percorso diagnostico, che aiuta a individuare e rimuovere ostacoli che non conoscevamo.

Questo non significa affidarsi al caso, ma riconoscere che il trattamento può anche servire a ristabilire un equilibrio, e che l’obiettivo deve sempre essere quello di accompagnare la coppia nel modo più rispettoso e individuale possibile.

Quanto conta, in tutto questo, l’ascolto della persona?

È essenziale. Il rischio oggi è di dare troppa attenzione alla tecnica e poca alle persone. Ma ogni coppia è fatta di una storia, di un tempo, di una condizione unica. Serve attenzione, sia dal punto di vista clinico sia da quello umano.

Solo così, secondo me, possiamo aiutare davvero le coppie che desiderano diventare genitori. Anche perché non possiamo replicare tutto ciò che avviene nella natura, e se vogliamo essere efficaci, dobbiamo essere curiosi, osservare, ascoltare.

Lei è anche referente per la SIRU (Società Italiana della Riproduzione Umana) sulla salute riproduttiva: in che modo si può intervenire in chiave preventiva?

Abbiamo avviato progetti di educazione nelle scuole, parlando con ragazzi di 16-17 anni. E ciò che colpisce è che la maggior parte di loro immagina il proprio futuro con una famiglia e dei figli, spesso prima dei 30 anni. Ma di salute riproduttiva sanno pochissimo.
Ecco perché è fondamentale formare le nuove generazioni, dar loro strumenti per conoscersi, per proteggersi, per non arrivare impreparati. Anche così si previene l’infertilità.

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